Settembre 8, 2024

La COP: Un modo imperfetto per affrontare la crisi climatica

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fonte immagine: https://www.focsiv.it/cattivo-tempo-per-la-prossima-conferenza-sul-clima/

La crisi climatica rappresenta la sfida globale della contemporaneità, essa riguarda ogni Stato coinvolgendo i suoi aspetti sociali, politici ed economici. Per affrontarla ogni anno si tiene la Conferenza delle Parti, conosciuta con l’acronimo di COP. La COP del 2023 si è conclusa Mercoledì 13 dicembre a Dubai, questa ventottesima edizione ha avuto un ampio riscontro mediatico per le ambivalenze e le contraddizioni che l’hanno caratterizzata. Eppure, la COP28 non è stata certamente l’unica Conferenza delle Parti a suscitare critiche e dibattiti. Per comprendere perché queste conferenze siano così importanti e dibattute è necessario conoscere il loro funzionamento e la loro storia.

Il termine COP è l’acronimo di “Conferenza delle Parti” e si riferisce alla riunione annuale dei Paesi che hanno ratificato la Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici. Questa convenzione, nata nel 1992 durante la Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite a Rio de Janeiro, rappresenta il principale trattato ambientale internazionale per contrastare il cambiamento climatico. 

I principi cardine della COP

Il testo iniziale del 1992 prevedeva la creazione della Conferenza delle Parti (COP) come organo supremo della Convenzione (art. 7) con l’obiettivo di stabilizzare le concentrazioni atmosferiche di gas serra derivanti dalle attività umane, responsabili dei cambiamenti climatici. Per raggiungere questo scopo la Convenzione stabiliva la necessità di organizzare dei congressi periodici chiamati Conferenze delle Parti (COP).  Le “parti” della COP sono i firmatari della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), un trattato del 1994, che conta attualmente 197 parti e rappresenta il primo strumento di diritto internazionale sul cambiamento climatico.

La UNFCCC si basa su dei principi cardine che definiscono il perimetro delle negoziazioni globali sul clima e guidano l’azione collettiva. Il primo di questi è il principio di responsabilità comuni, ma differenziate; esso sottolinea il fatto che non tutti i paesi hanno giocato e giocano lo stesso ruolo nel causare la crisi climatica. Da questa premessa, scaturiscono responsabilità diversificate di stato in stato, pur nel contesto unificante della necessità di coinvolgere tutti. In altre parole, le nazioni che hanno storicamente contribuito in misura maggiore alle emissioni di gas serra, sono chiamate ad assumersi una maggiore responsabilità.

Il secondo principio fondamentale è quello delle rispettive capacità, il quale si basa sul presupposto che ogni stato disponga di livelli di risorse molto diversi per contribuire ad affrontare la sfida climatica. Pertanto, l’impegno e gli sforzi di ciascun stato devono essere commisurati a queste diversità, e le nazioni con maggiori risorse sono tenute a sostenere quelle con minori possibilità.

Il terzo pilastro è rappresentato dal principio di precauzione secondo il quale è necessario impegnarsi per anticipare e mitigare le cause dei cambiamenti climatici basandosi sulla migliore scienza disponibile, quella sintetizzata dall’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). Questo principio sottolinea l’importanza di agire in modo proattivo, anche in assenza di certezze assolute, per evitare danni irreparabili all’ambiente e alla società.

Dal 1995 a oggi, l’organo della COP è tenuto a riunirsi annualmente con l’obiettivo principale di contrastare la crisi climatica seguendo questi pilastri. Al termine di ogni COP, infatti, viene redatto un documento contenente il risultato dei negoziati dell’edizione, che, tuttavia, rappresenta più una guida politica che un accordo legalmente vincolante. Ciò limita l’efficacia dei negoziati che vengono raggiunti attraverso un complesso funzionamento che spesso genera risultati ambivalenti.

Infatti, ogni anno la diplomazia climatica si trova ad affrontare una serie di sfide, sia di natura legale che relazionale, e a dover bilanciare la partecipazione più ampia possibile con la concretezza dei vincoli concordati. Questa complessità emerge dalla necessità di raggiungere un consenso unanime tra attori con interessi notevolmente diversi, e dalla sfida di pianificare e attuare strategie a breve e lungo termine. I fattori che contribuiscono a questa intricata situazione includono la ricerca di equilibrio tra la partecipazione globale e la definizione di vincoli operativi, la difficoltà nel raggiungere un consenso tra nazioni con interessi divergenti, e l’importanza e la laboriosità di monitorare l’adempimento degli impegni con l’implementazione di incentivi o sanzioni.

Come avvengono i negoziati delle COP

I complessi negoziati della COP avvengono in diversi momenti e luoghi, durante i primi giorni della conferenza avviene la definizione dell’agenda dei negoziati, e negli ultimi giorni viene presentato il risultato del lavoro delle delegazioni in un’assemblea plenaria conclusiva. La decisione finale, per essere adottata, richiede l’approvazione all’unanimità di tutti i paesi. I negoziati volti a raggiungere l’accordo finale si svolgono in uno spazio definito Blue Zone che rappresenta il cuore formale delle COP, è uno spazio riservato ai partecipanti ufficialmente registrati. Qui si concentrano i delegati ufficiali provenienti dai vari paesi, i negoziatori specializzati e i rappresentanti governativi. Questo ambiente chiuso è il teatro in cui si definiscono accordi e strategie per affrontare la crisi climatica. Gli osservatori, provenienti da organizzazioni non governative, università e istituti di ricerca, svolgono un ruolo di vigilanza per garantire la trasparenza dei negoziati, contribuendo a creare un dialogo più ampio sulla questione climatica.

Le COP ospita però anche altri spazi aperti ed accessibili raccolti nella Green Zone, pensata per coinvolgere rappresentanti della società civile, settore privato, ONG, organizzazioni giovanili, giornalisti ed esperti. Qui, al di fuori delle trattative ufficiali, si svolgono eventi, incontri e presentazioni. I padiglioni dedicati ai paesi e agli osservatori accreditati offrono la possibilità di organizzare incontri privati e presentare iniziative e soluzioni. La Green Zone incarna un approccio più informale e aperto, promuovendo la collaborazione e l’interazione tra una vasta gamma di attori interessati alla lotta contro il cambiamento climatico.

Questi due spazi, complementari ma distinti, riflettono la complessità della diplomazia climatica, fornendo contesti adeguati per le negoziazioni ufficiali e per l’interazione più ampia e inclusiva tra le parti coinvolte. Tuttavia, la vera sfida inizia con la conclusione della COP e l’inizio dell’implementazione degli impegni presi. Infatti, finita la Conferenza, l’intricato labirinto dei negoziati climatici si scontra con la difficile implementazione degli accordi conclusi. Per questo motivo è ancora presto per decretare se la COP28, che ha suscitato sia consensi che critiche, sarà un successo o un fallimento, poiché ciò dipenderà da come e quando gli impegni presi si metteranno in atto.

La necessità di conciliare la complessità delle trattative con l’implementazione pratica degli accordi spiega le ambiguità che spesso circondano le conclusioni delle COP. Per comprendere meglio l’importanza e le sfide che caratterizzano le COP, è utile esaminare le tappe salienti dei ventotto anni di negoziati.

La storia delle COP

La prima COP si tenne nel 1995 nel vasto Centro Congressi Internazionale di Berlino dove quasi 4000 persone, tra rappresentanti di delegazioni nazionali, osservatori e media, si riunirono per affrontare la sfida del cambiamento climatico. L’evento fu presieduto da Angela Merkel la quale era stata appena nominata ministra dell’Ambiente dal cancelliere tedesco Helmut Kohl. Il primo risultato importante fu però raggiunto durante la terza COP tenutasi in Giappone nel 1997, nella quale fu redatto il famoso Protocollo di Kyoto. Il protocollo, firmato da 180 paesi, stabiliva obiettivi quantitativi di riduzione delle emissioni di gas serra, variabili da uno stato all’altro secondo il principio di responsabilità comuni ma differenziate. 

Con il Protocollo di Kyoto i paesi maggiormente responsabili della crisi climatica, che corrispondevano agli stati con le economie più solide, furono chiamati ad assumere un ruolo più attivo nella lotta contro il cambiamento climatico e a supportare i Paesi che non avevano avuto modo di sviluppare le loro economie attraverso lo sfruttamento dei combustibili fossili. Il Protocollo di Kyoto entrò in vigore il 16 febbraio 2005, ci vollero dunque otto anni per ottenere il sostegno e le ratifiche necessarie, anche a causa del ritiro degli Stati Uniti nel 2001.

Nelle successive Conferenze delle Parti i negoziati si focalizzarono sulla definizione delle modalità di attuazione del Protocollo di Kyoto. Durante la COP13 tenutasi a Bali nel 2007, si stabilirono  meccanismi principali quali il sistema dell’Emissions Trading, il Clean Development Mechanism e la Joint Implementation. Inoltre l’adozione della Bali Road Map tracciò la strada per un nuovo processo negoziale condiviso, ma le aspettative di un’accelerazione negli impegni vincolanti globali entro il 2009 furono deluse.

Durante la successiva COP14 a Poznan, in Polonia, fu istituito il Fondo Verde per il Clima, per sostenere finanziariamente le azioni di adattamento e mitigazione nei paesi del Sud Globale. Tuttavia, la mancanza di chiarezza sui finanziamenti e le pressioni esercitate dalle economie dominanti contribuirono alla mancanza di un impegno unanime. Un anno dopo, nel 2009, la COP15 di Copenaghen deluse le speranze. Infatti, nonostante si introdusse per la prima volta la necessità di evitare il superamento della soglia dei 2°C nell’aumento delle temperature medie globali, l’accordo raggiunto non risultò né vincolante né operativo.

Nel 2012 la COP si tenne a Doha, in Qatar, durante questa diciottesima edizione si garantì una seconda stagione al Protocollo di Kyoto, estendendolo fino al 2020. Tuttavia, quest’accordo fu accettato solamente da alcuni Paesi del Nord Globale quali Unione Europea, Australia, Svizzera e Norvegia, responsabili insieme solo del 15-20 per cento delle emissioni di gas serra. La COP18  va però anche ricordata per l’approvazione del meccanismo Loss and Damage attraverso il quale si stabilì che i Pesi con le economie più avanzate debbano assumersi l’onere economico dei danni climatici subiti dalle nazioni del Sud Globale, maggiormente esposte agli effetti del cambiamento climatico e storicamente meno responsabili dell’emissioni che ne sono la causa. Inoltre, Germania, Regno Unito, Francia, Danimarca, Svezia e l’Unione Europea promisero impegni finanziari per un totale di circa 6 miliardi di dollari da destinare all’interno del Fondo Verde per il Clima entro il 2015. 

L’Accordo di Parigi

L’importanza del Protocollo di Kyoto sarà rimpiazzata dall’Accordo di Parigi raggiunto nel 2015 durante la COP21. Il risultato di quest’edizione è stato considerato un successo diplomatico storico, ottenendo 195 ratifiche. Il suo obiettivo principale è mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2°C rispetto ai livelli preindustriali, cercando di limitare l’aumento a 1,5°C. 

Una delle disposizioni chiave dell’Accordo prevede la creazione di un meccanismo di revisione per gli impegni dei vari paesi che dovrà avere luogo ogni cinque anni, con l’obiettivo di aumentare progressivamente l’ambizione. Tuttavia, è importante notare che l’Accordo non è realmente vincolante e che l’universalità della partecipazione è stata in parte ottenuta allargando le maglie vincolanti di Kyoto e ciò ha suscitato critiche costruttive sulla sua efficacia. 

Le critiche riguardarono anche la linea sulle fonti fossili, in quanto nell’Accordo di Parigi si preferì adottare una formula vaga chiedendo il raggiungimento del picco di emissioni “il prima possibile” anziché bandirle esplicitamente. Infine, l’Accordo di Parigi affronta la questione del Loss and Damage istituendo una task force con il compito di sviluppare raccomandazioni per evitare, ridurre al minimo e affrontare le migrazioni relative agli impatti negativi dei cambiamenti climatici, esso però non comporta o fornisce alcuna base per qualsiasi responsabilità o compensazione.

L’Accordo di Parigi è stato anche il fulcro della COP22 di Marrakesh nella quale i negoziati si sono concentrati sulle modalità di implementazione. In questa occasione è stata redatta una bozza di piano comune per rilanciare gli impegni di riduzione nazionali, mirando a creare un sistema condiviso per valutare l’efficacia delle politiche climatiche degli stati e misurare i tagli alle emissioni. 

La COP24 di Katowice nel 2018 ha rappresentato un ulteriore passo avanti poiché, l’adozione del ‘Katowice Climate Package’ ha stabilito dettagliatamente le modalità con le quali i paesi dovrebbero fornire informazioni sui loro impegni nazionali. Nonostante i solidi progressi, alcune questioni, come l’utilizzo degli approcci cooperativi e del meccanismo di sviluppo sostenibile, sono state rimandate alla successiva COP tenutasi a Madrid. Tuttavia, nella COP25, l’obiettivo di finalizzare il “rulebook” per le regole dei mercati del carbonio e altre forme di cooperazione internazionale ai sensi dell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi è stato solo un miraggio. 

I sedici giorni di colloqui della COP25 non hanno raggiunto un consenso su molte questioni chiave, come i requisiti di rendicontazione e i “tempi comuni” per gli impegni climatici. Le nazioni più ambiziose, tra cui gli Stati dell’Unione Europea, si sono scontrate con il muro alzato da paesi come Brasile ed Australia, desiderosi di inserire nel testo scappatoie, come il riutilizzo delle quote di carbonio accumulate durante gli anni del Protocollo Kyoto nel nuovo meccanismo di contabilizzazione dei crediti di CO2. Dai documenti approvati alla fine della conferenza emerge più che altro l’impegno, non vincolante, a presentare piani più ambiziosi per ridurre le emissioni nazionali.

Nel 2021, la COP26 di Glasgow, la conferenza più importante dopo la COP21 di Parigi, ha prodotto un bollettino finale misto, con delusioni e passi avanti. La frustrazione maggiore è arrivata dalle modifiche imposte all’ultimo minuto da Cina e India, impedendo al consesso di “consegnare il carbone alla storia.” Nel patto sul clima di Glasgow, le Parti si sono limitate a concordare una riduzione della CO2 anziché un addio definitivo. Dal testo finale è stato rimosso il passaggio che invitava a una graduale eliminazione delle “sovvenzioni ai combustibili fossili,” convertito in “sovvenzioni ai combustibili fossili inefficienti.”

Neppure i 100 miliardi di dollari l’anno in finanziamenti per il clima, promessi dalla COP15 di Copenaghen nel 2009 a partire dal 2020, sono stati concretizzati, rimandandoli al 2023. Tra i progressi (non privi di critiche), si annoverano la creazione di un mercato globale del carbonio e l’accordo “per rivedere e rafforzare” gli obiettivi 2030 dei Contributi Determinati a livello Nazionale per ridurre le emissioni di gas serra (NDC). La ventiseiesima Conferenza delle Parti ha anche istituito un nuovo International Sustainability Standards Board per sviluppare una linea di base globale per gli standard di divulgazione climatica ed ESG.

In conclusione, il percorso delle Conferenze delle Parti nell’affrontare la crisi climatica, sviluppatosi attraverso ventotto anni di negoziati, compromessi e ambiguità, evidenzia la complessità intrinseca di questo strumento diplomatico. Per questo le ambivalenze della COP28 non costituiscono un’eccezione, ma riflettono i limiti e le criticità dell’attuale strumento globale per affrontare la crisi climatica. Nonostante le difficoltà, è fondamentale riconoscere che le COP rimangono l’unico mezzo globale disponibile, sottolineando la necessità di migliorare l’efficacia dei negoziati e promuovere un impegno collettivo più incisivo per garantire un futuro sostenibile per il nostro pianeta.

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