Ottobre 18, 2024

Artemisia Gentileschi: arte e coraggio della prima donna “pittora”

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Questa è la storia di una donna, di una “pittora”, la prima a essere riconosciuta come tale e pertanto chiamata con una parola che fino ad allora non era ancora stata coniata: Artemisia Gentileschi, la protagonista di una vita fatta di arte, ma soprattutto di coraggio. Artemisia nasce nel 1593, nella Roma intrisa di barocco e Controriforma, figlia del pittore Orazio Gentileschi che, rimasto vedovo poco dopo la nascita della bambina, sarà non solo genitore, ma anche maestro.

Cresciuta nella bottega del padre, respira sin da subito un’aria fatta di arte e pennelli e verrà istruita come sua allieva prediletta; molto presto sarà evidente che la giovane è una pittrice molto dotata e il merito di Orazio sarà quello di coltivare questa dote, spronando la figlia a esercitarsi e ad apprendere quanto più possibile, permettendole anche di confrontarsi con tutti i colleghi artisti che gravitavano nella cerchia del pittore.

Formata con la corrente artistica ispirata allo stile di Caravaggio, sicuramente il più influente artista dell’epoca e quasi sicuramente habitué in casa Gentileschi, Artemisia esordisce con la sua prima opera autografa, intitolata “Susanna e i vecchioni”; la prima versione della tela è datata 1610 e viene esibita dal padre, a dimostrazione dell’immenso talento della giovane. Il quadro ritrae un episodio biblico, in cui una giovane viene molestata da due uomini, una narrazione che si dimostrerà tristemente profetica.

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Susanna e i Vecchioni – 1610 – olio su tela – 170 x 119 – Pommersfelden (Germania)

Il nome di Artemisia, infatti, attraverserà i secoli non tanto per la sua maestria artistica, ma soprattutto per un evento che la vedrà protagonista, suo malgrado: il primo processo di stupro della storia.

Fiero della bravura della figlia e desideroso di vederla crescere, Orazio la manda nella bottega di Agostino Tassi, un noto e talentuoso pittore, ben inserito nell’ambiente artistico romano, affinché potesse prenderla sotto la sua ala. Tuttavia, gli eventi non andarono come sperato e, uomo sanguigno e violento, il Tassi compie un brutale stupro ai danni di Artemisia, rea di aver rifiutato le sue numerose avance. Reso evidente il fatto che fosse impossibile ricorrere al matrimonio riparatore, poiché il Tassi era già sposato, Artemisia e suo padre denunciano la violenza, affrontando un processo che durerà mesi e che sottoporrà la giovane a ogni sorta di umiliazione. In tribunale, infatti, si cercherà di mettere in dubbio la buona fede di Artemisia, che verrà addirittura torturata per testare la sua buona fede. Dopo estenuanti interrogatori e deposizioni, la veridicità dei  fatti è palese e Artemisia vince la causa; tuttavia, ben inserito nell’alta committenza romana, il Tassi ha dalla sua amicizie influenti, che tenteranno di proteggerlo e che faranno in modo che la condanna all’esilio non venga mai messa in  pratica.

Di questa terribile esperienza, non abbiamo soltanto i verbali del tribunale, ma soprattutto la testimonianza pittorica di Artemisia, la sua opera più famosa e incisiva: Giuditta che decapita Oloferne. Realizzato immediatamente dopo questa vicenda, la tela rappresenta un soggetto già caro alla tradizione pittorica, ovvero la nobile Giuditta che, per salvare il suo popolo da una guerra che stava volgendo al peggio, decide di sedurre e poi uccidere il comandante dell’esercito nemico. Con il pennello tra le mani, Artemisia ritrae sé stessa nel carnefice e il Tassi nella  vittima decapitata; Giuditta è una donna che compie la sua vendetta con freddezza ed estrema forza, che non si impressiona alla vista del sangue che, copioso, infradicia il materasso. Utilizza il peso del proprio corpo per bloccare l’uomo e affondare la lama nel collo, facendosi aiutare dalla serva, come a voler rappresentare la ricerca di una solidarietà femminile.

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Giuditta che decapita Oloferne – 1612 – olio su tela – 158,8 x 125,5 – Museo nazionale di Capodimonte (Napoli)

Nell’opera è immediatamente riconoscibile l’eredità del Caravaggio, superbamente interpretata da Artemisia, che sa dosare perfettamente luci e ombre, come se estraesse i suoi personaggi dal buio, facendone vibrare i colori accesi delle vesti. Abbiamo poi un seconda versione, che risale agli anni fiorentini, durante i quali Artemisia, ormai sposata e per propria scelta lontana da quella Roma che l’aveva ricoperta di umiliazioni, viene ammessa all’Accademia delle arti del disegno, prima donna a godere di tale privilegio.

Ormai famosa e affermata, la pittrice affronterà vari viaggi, tra i quali spicca un soggiorno in Inghilterra, alla corte di Carlo I, fanatico collezionista di opere d’arte, che la volle ad ogni costo. Nel 1649 torna infine a Napoli, dove rimase fine alla morte, avvenuta probabilmente durante la peste del 1656.

Di questa donna straordinaria, apprezzata in patria ma non solo, rimangono moltissime opere, sparse nei musei e nelle collezioni di mezza Europa, ma una su tutte è esemplificativa dell’idea che aveva di sé stessa: l’Autoritratto come allegoria della Pittura, del 1639. In un periodo in cui il ruolo delle donne all’interno della società era definito da schemi rigidi, dai quali era difficile uscire, Artemisia vuole immortalare una donna, una “pittora”, nei panni dell’arte a cui ha dedicato tutta la sua vita.

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