Dicembre 19, 2024

COMPRENDERE PER CRESCERE, CRESCERE PER COMPRENDERE

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Siamo il confine di ciò che possiamo apprendere; conoscere questo limite ci serve per tentare di ampliarlo consapevolmente.
comprendere, conoscere

(fonte immagine medicalnewstoday.com)

Sul conoscere come strumento trasformativo

“Conosci te stesso” (γνῶθι σ(ε)αυτόν,gnōthi seautón) è il celebre monito che, insieme all’invito alla moderazione espresso dall’altro motto “nulla di eccessivo” (μηδὲν ἄγαν, mēden agān), ornava il frontone del tempio di Apollo a Delfi (IV secolo a.c.). L’etimologia del termine “conoscere” rimanda al concetto di apprendimento (secondo il dizionario etimologico – Conoscere: apprendere con l’intelletto il vero delle cose).

Impariamo, acquisendo o modificando le nostre conoscenze, abilità e/o comportamenti attraverso quel processo che indichiamo, appunto, come apprendimento. La psicologia, meglio la pedagogia, nel corso degli anni, ha elaborato numerose teorie in merito. Non è però mia intenzione, in questo articolo, fare un excursus di tali teorie.

Quello che mi propongo invece è di portare una riflessione, certamente incompleta, su tre elementi che, secondo una particolare linea di pensiero filosofico, determinano le possibilità correnti, in termini di conoscenza, a cui ogni essere umano può accedere nel suo continuo processo di apprendimento. I tre elementi a cui mi riferisco sono definiti come: sapere, essere e comprendere.

Ma andiamo per ordine.

Ad oggi è ancora fortemente radicata nelle persone la convinzione che il “conoscere” sia un’attività meramente intellettuale, intesa come: “un’attività che richiede il pensiero e l’interpretazione da parte della mente umana”.

Certo, con riferimento a quanto appena citato, credo sia necessario chiarire cosa si intende con il termine “mente”, giusto per evitare di ragionare su concetti troppo astratti. Senza scomodare teorie eccessivamente complesse, attingo da ciò che tacitamente viene comunemente accettato e cioè che “la mente è il termine usato per indicare le funzioni cognitive e mentali dell’essere umano”, visto che le “neuroscienze sostengono che la mente sia una funzione del cervello” e che pertanto “non esiste alcuna dicotomia fra mente e cervello, poiché indicano la stessa cosa”.

Eppure tale equazione ( mente = cervello), pur supportata da eminenti personalità in campo scientifico, da tempo sembra abbia bisogno di essere aggiornata.

Come Gregory Bateson notò nel 1972, se guardiamo un uomo cieco con il suo bastone, sarebbe problematico cercare di stabilire dove il suo “io” inizia e dove finisce, nel processo di percezione e comprensione della realtà circostante. Possiamo porre un confine tra il cervello dell’uomo e il suo corpo? O tra il suo corpo e il bastone che usa per percepire lo spazio circostante? O persino tra il bastone e la realtà circostante? Gregory Bateson, considerando questi come confini senza senso, radicò il concetto di mente in un sistema più esteso [Bateson scrive]:Si può dire che la ‘mente’ è immanente [è insita] in quei circuiti cerebrali che sono interamente contenuti nel cervello; oppure che la mente è immanente nei circuiti che sono interamente contenuti nel sistema: cervello più corpo; oppure, infine, che la mente è immanente nel più vasto sistema: uomo più ambiente” (tratto da: L. Galbusera, T. Fuchs – In-Mind Italia).

conoscere bateson

(Gregory Bateson – fonte immagine: web)

Parafrasando quanto appena citato: conosciamo attraverso il corpo e per mezzo del corpo (e non solo), il nostro modo di pensare, inoltre, è fortemente influenzato dall’interazione con l’ambiente fisico che ci circonda (compreso il nostro corpo).

Le idee appena esposte fanno parte della cosiddetta teoria della cognizione incarnata (embodied cognition). Secondo tale teoria: “i nostri cervelli ricevono il loro input dal resto dei nostri corpi. I nostri corpi ed il modo in cui funzionano nel mondo strutturano i concetti che possiamo usare per pensare. Non possiamo pensare qualsiasi cosa, ma solo ciò che ci permettono i nostri cervelli incorporati.“ (V. Gallese 2001).

O ancora meglio, come scrivono Massimiliano Palmiero e Maria Cristina Borsellino nel loro “Embodied cognition. Comprendere la mente”: “Il fondamento teorico dell’Embodied Cognition è sinteticamente ravvisabile nell’esigenza di restituire corpo alla mente, con ciò intendendosi l’inseparabilità e la permeabilità delle facoltà mentali da parte di strutture e dinamiche corporee, nonché l’inevitabile integrazione di queste ultime nel mondo naturale e sociale. Dall’assunto teorico per cui la corporeità dell’organismo limita e prescrive i tipi di sistemi conoscitivi che all’organismo sono permessi, influenzando il tipo di azioni intenzionali che possono essere effettuate, consegue che le peculiari esperienze senso-motorie connesse a tali azioni costituiscono la base per la formazione di concetti e categorie e determinano il modo in cui il mondo appare e viene compreso.”.

E’ il corpo, o meglio, è il nostro essere nella sua globalità che, nell’interazione con ciò che lo circonda, partecipa attivamente all’elaborazione delle informazioni che riceviamo. Un esempio banale può chiarire questa relazione: attraverso un semplice esperimento si può constatare come, stimolando nei partecipanti pensieri riguardanti il futuro, questi tendano ad inclinare il loro corpo leggermente in avanti, mentre pensare al passato li porta ad inclinarlo lievemente all’indietro. Probabilmente è un esperienza che più o meno è familiare alla gran parte di noi: nella geografia della nostra immaginazione il futuro lo collochiamo nello spazio davanti a noi.

conoscere il futuro avanti

(fonte immagine: web)

Tornando quindi all’oggetto della nostra riflessione, alla triade (sapere, essere, comprendere), se è il nostro essere nella sua globalità che è “strumento” di elaborazione delle informazioni, questi, in ogni momento, determina anche i limiti dalla nostra comprensione, ovvero di come le informazioni stesse vengono accolte, organizzate ed integrate.

Purtroppo, ad oggi, i processi educativi tradizionali non tengono minimamente in considerazione questo aspetto (al contrario di quanto accadeva anticamente nelle scuole misteriche ad esempio). Nei sistemi educativi tradizionali (dalla scuola dell’obbligo alla formazione per adulti) si da essenzialmente priorità ad un sapere nozionistico che deve essere assorbito in modo acritico (una sorta di verità rivelata), oppure ad un sapere che possa tramutarsi in saper fare (l’acquisizione meccanica di un’abilità che possa essere successivamente spendibile in qualche ambito). In questo genere di sistema non c’è spazio per lo sviluppo dell’essere; lo sviluppo dell’essere viene totalmente delegato alle scelte del singolo (essere una brava infermiera ad esempio). Citando E. Fromm, “l’essere viene incrementato dalla pratica”, perché attraverso la pratica noi non ci misuriamo solamente con delle nozioni nuove, ci misuriamo principalmente con noi stessi, con ciò che in ogni momento siamo: imparare a nuotare non implica solamente l’acquisire le abilità e le tecniche natatorie, implica anche, ad esempio, confrontarsi con la propria paura dell’acqua, con la possibilità di affogare e quindi di morire.

Diventare una brava infermiera non implica solo l’acquisizione di un sapere che si traduce in un sapere fare (saper fare un prelievo di sangue senza procurare danni alla persona); implica anche un esserci nella relazione con l’altro e questa capacità, questo atteggiamento non lo si può ricreare artificialmente (non rientra nel saper fare): saper essere nella relazione implica un saper essere con noi stessi, ovvero conoscersi e saper mettere in atto tutti quegli atteggiamenti, quali ad esempio ascolto, empatia e rispetto, prima di tutto con se stessi e poi con l’altro (il paziente).

Ecco quindi che possiamo intuire come la comprensione, in ogni momento, risulti limitata dall’essere: come faccio a capire (comprendere) come ascoltare, accogliere l’altro se rifiuto/non sono capace di ascoltare/accogliere me stessa? Come faccio ad abbandonarmi al sostegno dell’acqua e fluire in essa ad ogni bracciata (sapere), se la mia paura mi spinge (inconsciamente) a dubitare di questo sostegno (comprensione inibita) e di conseguenza mi trovo ad irrigidire il mio corpo (essere)?

E’ chiaro quindi che se “l’essere viene incrementato dalla pratica” (aggiungerei consapevole), essere una brava infermiera (in un sistema sanitario ideale) implica una modalità operativa per cui si è continuamente orientati da una consapevolezza riflessiva sul proprio ruolo, sulla propria funzione, sul proprio sentire; è solo tramite questa attenzione che si riesce ad aggiungere, sottrarre e trasmutare la materia del proprio essere.

Sapere, essere e comprendere sono tre dimensioni interdipendenti di un unico processo, come si evince bene attraverso le parole di chi questa triade ce l’ha presentata: il filosofo greco-armeno G.I. Gurdjieff – “Il sapere è una cosa, la comprensione è un’altra. Ma la gente confonde spesso queste due idee, oppure non vede nettamente dove sta la differenza. Il sapere di per sé stesso non dà comprensione. E la comprensione non potrebbe essere aumentata da un accrescimento del solo sapere. La comprensione dipende dalla relazione tra il sapere e l’essere. La comprensione risulta dalla congiunzione del sapere e dell’essere.”

conoscere gurdjieff
(G.I. Gurdjieff – fonte immagine: web)

Apprendere, conoscere è un processo quindi che può avvenire a vari livelli. Il primo livello è quello definito da una conoscenza meramente nozionistica (sapere), peraltro oggigiorno idolatrata da tutti quei programmi/quiz dove il genio della situazione, come spesso viene definito, ha essenzialmente la capacità di immagazzinare e successivamente richiamare alla memoria un gran numero di nozioni (dati); la comprensione in quest’ottica può essere irrilevante.

Il secondo livello è definibile dal cosiddetto saper fare, che non implica per forza il comprendere in un senso più ampio, come fu, ad esempio negli intenti di Frederick Taylor che, attraverso la sua organizzazione scientifica del lavoro, vedeva l’essere umano solamente come un ingranaggio di una macchina più ampia, già organizzata a monte, e per questo ai singoli operatori era richiesto che apprendessero “un solo atto manuale che anche l’uomo più stupido potrebbe appropriarsi in due giorni” (H. Ford), visto che, in ottica tayloristica, gli operatori erano “pagati per lavorare, non per pensare”. Al limite, si può diventare abilissimi nel fare qualcosa (anche un prelievo di sangue) senza minimamente comprendere il perché.

E’ solamente nell’ultimo livello, cioè quando la comprensione genera una trasformazione del proprio essere (ad esempio smetto di aver paura dell’acqua o riesco ad empatizzare col dolore dell’altro) che possiamo dire veramente di aver imparato qualcosa, perché quel particolare sapere si è incarnato in noi e diventando parte di noi ci dona la possibilità di accedere a nuove conoscenze, abilitando nuove modalità di comprensione. Crescere, in conoscenza, significa soprattutto esplorare e coltivare quelle qualità intrinseche che definiscono chi siamo al di là di ciò che sappiamo e facciamo.

Ma torniamo al monito delfico da cui siamo partiti: “conosci te stesso”. Come oggi stiamo riscoprendo, conoscere se stessi è essenziale per comprendere i propri limiti, intesi, soprattutto, come territorio entro cui ci è permesso di fare esperienza del mondo. E’ solo conoscendo il limite che abbiamo la possibilità di intuire quell’oltre inesplorato (e spesso terrorizzante) che ci permette di accedere a nuove conoscenze, intese anche come nuove elaborazioni di conoscenze già acquisite. E questo gli antichi lo sapevano bene, visto che per loro quel “conosci te stesso”, veniva inteso come la chiave indispensabile per decodificare ogni ulteriore conoscenza:

Dì un po’: com’è che tu misuri il cosmo e i limiti della terra,

tu che porti un piccolo corpo formato da poca terra?

Misura prima te stesso e conosci te stesso,

e poi calcolerai l’infinita estensione della terra.

Se non riesci a calcolare il poco fango del tuo corpo,

come puoi conoscere la misura dell’incommensurabile?

(Antologia Palatina, IV secolo d.c.)

E’ per questo che la vera natura dell’apprendimento è quella di un processo iterativo, più che additivo, un pò come la conoscenza che ciclicamente si inabissa per poi riaffiorare trasformata per trasformarci, ma questo solamente se glielo permettiamo sinceramente.

Nota

(tutte le frasi in corsivo sono citazioni, anche quelle senza indicazione della fonte – i grassetti sono stati inseriti da chi scrive)

2 thoughts on “COMPRENDERE PER CRESCERE, CRESCERE PER COMPRENDERE

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