Dicembre 21, 2024

NELL’ERA DELLA CARDIOCRAZIA

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Una breve analisi sugli impatti che le emoji hanno sulla comunicazione interpersonale, ma soprattutto sulla nostra percezione della realtà.
gentilezza cardiocrazia

fonte immagine www.clipartbest.com

La gentilezza ai tempi dello smartphone

Sembra che siamo diventati tutti più gentili ed amorevoli col prossimo. Eppure basta fluire (metaforicamente) nel traffico cittadino per qualche chilometro per rendersi conto che c’è qualcosa di incongruente fra la gente, perché la gentilezza, oggigiorno, pare prediligere il canale virtuale, piuttosto che quello reale. Mi spiego. Siamo ormai consapevoli di come la componente di interazione virtuale con gli altri sia diventata quasi predominante nella vita di tutti noi. In particolare mi riferisco a quell’interazione fatta di scambi di brevi messaggi testuali (o misti) tramite apposite App.

Visto che il solo messaggio testuale risulta molto limitato nel veicolare tutte quelle sfumature di significato insite in una comunicazione (mi riferisco alle componenti non-verbali e paraverbali) la tecnologia ci è venuta incontro dotandoci di strumenti di supporto quali codici (emoticon), animazioni, ma sopratutto di emoji: un catalogo di faccine, simboli, oggetti e chi più ne ha più ne metta, con cui “colorare” i nostri testi.

Tra tutti gli emoji, uno in particolare, negli ultimi tempi, sta turbando le mie giornate: mi riferisco a quello che rappresenta un cuore e per di più di colore rosso!

Sono turbato perché quotidianamente ne ricevo dosi da far impallidire il più incallito dei don Giovanni, ma la cosa che mi lascia ancor più perplesso è che li ricevo in risposta a messaggi del tutto privi di finalità adulatorie; faccio un esempio: “Ciao! Ti andavano bene il paio di calzini che ti ho comprato?” – ed ecco lì… in risposta, comparire sul monitor del mio smartphone un’immancabile, sintetico, cuore rosso… e niente più!

Tutto ciò credo necessiti di un’analisi approfondita.

Partiamo con un po’ di storia. Evitando di soffermarsi su origini fin troppo esotiche (c’è chi fa risalire l’origine dello smile al presidente Abraham Lincoln), il primo codice per “scrivere” le emozioni nei messaggi di testo viene attribuito all’informatico e professore alla Carnegie Mellon University in Pennsylvania, Scott Fahlman.

(Scott Fahlman – fonte immagine web)

Fahlman, nel 1982, notando che nei messaggi che i colleghi pubblicavano sulle prime bacheche online dell’università era facile fraintendere ciò che veniva scritto in tono sarcastico (probabile effetto collaterale dello humor anglosassone), per togliere i colleghi da possibili guai, ideo una serie di combinazione di caratteri testuali atti a riprodurre alcune espressioni facciali – tipo : – ) oppure : – ( – con cui connotare il testo . Nascono così le emoticon, termine formato dalle parole inglesi “emozione” (emotion) e “icona” (icon). Le emoticon sono un primo rudimentale tentativo di colorare emotivamente un messaggio testuale.

Per incontrare i simboli oggetto di questo mio scritto (gli emoji) bisogna però attendere fino alla fine degli anni ‘90… e trasferirsi in Giappone!

La parola emoji, infatti, deriva dal giapponese 絵文字 – dove (e) significa immagine, (mo) scrittura ed infine (ji) carattere. A prima vista, quindi, la parola emoji non ha legami etimologici diretti con l’emotività (come nel caso di emoticon).

L’invenzione si deve a Shigetaka Kurita, membro del team di sviluppo della compagnia di telefonia mobile giapponese NTT DoCoMo intenta, all’epoca, a sviluppare una delle prime piattaforme di servizi internet mobili. Kurita in un’intervista pubblicata sul web spiega come gli è venuta l’idea: “A quel tempo il numero di caratteri che si potevano utilizzare nei messaggi era molto ridotto. Come è nata l’idea delle emoji? In tv le previsioni meteo venivano date mostrando dei simboli, un sole per esempio, senza far uso di parole. Ho pensato che sarebbe stato utile utilizzare lo stesso linguaggio per il sistema che stavamo mettendo in piedi. Da qui abbiamo iniziato a sperimentare le prime emoji. Il tutto in realtà è avvenuto nel 1998 ma è stato divulgato al mondo il 22 febbraio del 1999”.

Il primo set di simboli creato da Kurita contava ben 176 emoji che tutt’oggi sono conservati al museo di arte moderna MoMa di New York.

(Shigetaka Kurita – fonte immagine web)

Qualcuno fa notare che il Giappone, come patria di nascita delle emoji, non sarebbe un caso, vista la storica difficoltà dei locali ad esprimere le emozioni attraverso le parole. Ritengo questa riflessione molto interessante, soprattutto in relazione a quanto sta accadendo oggi.

Il nesso viene colto bene in un articolo pubblicato su AgendaDigitale.eu, dove si legge: “la sempre maggiore immediatezza, facilità e naturalezza con la quale le nuove tecnologie ci permettono di esprimere i nostri stati d’animo ci sta rendendo tutti più emotivi e consapevoli dei nostri stati interiori?” non sembrerebbe… “una cosa è certa: le nuove tecnologie cambiano il modo con il quale noi esprimiamo i nostri sentimenti e le nostre emozioni, cambiano la percezione e il significato che noi diamo a ciò che proviamo dentro di noi, e di conseguenza cambiano la percezione della nostra Realtà e quindi il rapporto che noi abbiamo con essa”.

Mai come in questo caso, è utile ribadire che un simbolo è uno strumento potente in grado di influenzare la nostra percezione della realtà. Ma vediamo in quale modo questi simboli ci influenzano.

Alcune ricercatrici del dipartimento di Psicologia dell’Università Milano-Bicocca di Milano (Linda Dalle Nogare e Alice Mado Proverbio), attraverso uno studio mirato, hanno evidenziato come gli stati d’animo rappresentati attraverso le emoji siano più facilmente riconoscibili rispetto ad un’immagine reale di un volto umano che esprime la stessa emozione. La questione sembra ovvia visto che le emoji sono rappresentazioni grafiche semplificate di un qualcosa che su di un volto umano può manifestarsi in modo molto più complesso. C’è un però. Il nostro cervello “vedrebbe” si quei simboli (in particolare le faccine) come veri e propri volti, ma nel farlo “non si attivano le aree innate per il riconoscimento delle facce […] Infatti inizialmente le faccette vengono considerate [ dal nostro cervello ] piccoli oggetti ed elaborate come tali dall’area temporale sinistra. Allo stesso tempo, le loro componenti interne verrebbero riconosciute come parti del volto e dettagli facciali […] e la morfologia facciale […] sarebbe in grado di indirizzare l’interpretazione emotiva, attivando le aree del sistema limbico.”. In pratica le emoji vengono antropomorfizzate dal nostro cervello in seconda battuta (all’inizio le riconosce solo come forme) e quindi il simbolo viene “trasformato” nel volto reale di chi ci sta messaggiando, portandoci così alla conclusione che quel volto (grafico) ci permette di interpretare quello che passa nella testa del nostro interlocutore (come se fosse presente di fronte a noi). Come dire: nel mondo frenetico in cui viviamo, pochissimi indizi fanno una prova!

Un altro studio (Do emojis influence social interactions? Neural and behavioral responses to affective emojis in bargaining situations – 2019) invece, rileva quella che potrebbe sembrare una verità lapalissiana: cioè che le espressioni facciali (dialogo vis à vis) siano in grado di “accompagnare” la comunicazione con molte più informazioni rispetto all’utilizzo delle emoji (scambio testuale). Ovvio, il volto umano, come evidenziato dal precedente studio, è molto più ricco di sfumature espressive (di informazioni) e per questo più complesso da decifrare, ma in grado di rendere lo scambio di contenuti molto più efficace (34 volte più efficace rispetto al solo testo, secondo uno studio pubblicato su Harvard Business Review).

Qualche spunto più interessante lo raccolgo da un altro recente studio in cui si è cercato di indagare il nesso tra uso di emoji e persuasività del messaggio (in ambito commerciale). Anche in questo caso, i risultati parlano chiaro: gli emoji (si è indagato soprattutto quelli facciali) sembrano un valido strumento per rafforzare l’aspetto persuasivo del messaggio andando ad influenzare sia l’arousal emozionale che l’ambiguità percepita – “La cosa più interessante è che […] le emoji facciali trasmettono significati sia denotativi (oggettivo e letterale) che connotativi (metaforico, simbolico) e quindi concorrono alla comprensione [del messaggio].”.

Concorrono, nella frase precedente, va letto nel senso più generale del termine, non nel senso di rafforzare la comprensione, in quanto l’emoji, come accennato, influenza anche l’aspetto di ambiguità percepita, ed è qui che si gioca la partita; la discriminante sta nell’uso che si fa di questi simboli, ovvero: ”se l’emoji trasmette un significato ambiguo oppure inequivocabile e, quindi, se aiuta o danneggia la persuasione. I nostri risultati mettono quindi in discussione l’ipotesi attuale secondo cui gli emoji generalmente chiariscono la comunicazione”.

La questione è molto semplice: nel caso in cui l’emoji venga utilizzato in sostituzione di un testo “il suo significato denotativo [dell’emoji] risulta ambiguo, il che danneggia la persuasività del messaggio.
Ciò implica che gli emoji facciali, di per sé, sono ambigui e riducono la chiarezza
[del messaggio] se la loro ambiguità intrinseca non viene mitigata.”. Viceversa, emoji che rafforzano un’espressione verbale possono rendere il messaggio più persuasivo.

Forse sarà per questo che ricevere un sintetico ❤️ in risposta alla mia domanda se i calzini che avevo comprato andavano bene mi ha lasciato un po’ di ambiguità addosso…

Ma non è finita. Come abbiamo appena visto, un emoji avendo l’indiscussa capacità di influenzare l’arousal emozionale di chi legge: “può essere utilizzato (ad arte) anche per modificare il contesto emotivo del messaggio, quindi l’intenzionalità del mittente, e di conseguenza come interpreteremo il messaggio e come reagiremo ad esso”.

Beh, lo ammetto, qualche volta, forse spinto da compassione, ho barato anch’io! D’altronde che c’è di male se ad una pessima battuta rispondiamo con l’invio di tante faccine che se la ridono a crepapelle…😂 😂 😂; in fondo è un gesto che rende felice l’altro… pura gentilezza, peraltro a buon mercato.

Il ❤️ però è un’altra cosa…almeno credo. Mi precipito su Emoji Dictionary per carpirne il significato: “L’emoji del cuore rosso ❤️ viene utilizzata in contesti emotivamente caldi. Può esprimere gratitudine, amore, felicità, speranza o anche civetteria. Un uso comune dell’emoji ❤️ è quello di trasmettere affetto o amore. In un altro senso, l’emoji ❤️ esprime gratitudine o ringraziamento. Può anche essere usato come strumento per flirtare. Infine, può essere usato per esprimere gioia per le proprie circostanze, che può sovrapporsi alla gratitudine.”.

Amore, gratitudine, gioia, speranza, passione… il range è notevolmente ampio e probabilmente aveva ragione J. Lacan nell’affermare che “il linguaggio opera interamente nell’ambiguità, e la maggior parte del tempo non sapete assolutamente nulla di ciò che dite”. E questo è ancor più vero per il ❤️, dato che: “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce” (B. Pascal).

E allora, dopo tanti dubbi e perplessità, ho capito che forse vale la pena giocare con questa ambiguità, perché: “non c’è erotismo autentico senza l’arte dell’ambiguità; più l’ambiguità è potente, più è viva l’eccitazione.” (M. Kundera)

In fondo un ❤️ concorre ad erotizzare (nel senso di stimolare quel desiderio che dà vita ad ogni nostra azione) un po’ di più le nostre esistenze fatte di impegni, doveri, rincorse, forzandoci anche solo per un istante in una pausa che ci riporta ad una dimensione più intima, meno logica. Una dimensione dove il confine tra sogno e realtà diventa labile, forse troppo labile per qualcuno, ma indispensabile a ricordarci che nonostante gli smartphone siamo ancora essenzialmente esseri umani.

(fonte immagine web)

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