Sokushinbutsu: la via per l’immortalità
5 min readTutti, fin dalla più tenera età, sentiamo parlare di Egitto, dei faraoni e delle mummie, concetti che sono oramai parte integrante dell’immaginario collettivo e che vediamo riproposti nei contesti più disparati, dalla filmografia hollywoodiana ai costumi di Halloween. La cultura della preservazione del corpo dopo la morte e i riti a questa collegati appartengono però a molte altre culture. Tra queste si è sviluppato, nei territori della Cina e successivamente in Giappone, un rito particolare che si è lasciato in questi paesi un certo numero di corpi la cui mummificazione ebbe inizio mentre l’individuo era ancora in vita: i Sokushinbutsu.
La preparazione per diventare Sokushinbutsu inizia già anni prima della morte effettiva del corpo. È un percorso di martirio e sofferenza con lo scopo ultimo di rompere il Samsara, il ciclo eterno di morte e rinascita tipico di alcune religioni orientali, e raggiungere così il Nirvana. Colui che ci riesce ascende così allo stato di Buddha, un illuminato le cui spoglie saranno venerate dai fedeli nei secoli a venire. Ma di tutti i centinaia di monaci che hanno tentato questo arduo percorso, fino ad ora solo di 24 ne sono state trovate le spoglie effettivamente integre.
Il rito del raggiungere l’illuminazione attraverso l’auto-mummificazione viene fatto risalire a Kūkai, monaco fondatore di una delle correnti esoteriche del buddhismo che fu tra i primi ad affrontare questo tipo di percorso. Negli ultimi anni della sua vita si ritirò infatti sul monte Kōya, dove smise di mangiare e bere per trascorrere tutto il tempo rimasto immerso in uno stato di profonda meditazione. Una volta morto il suo corpo non fu tuttavia cremato, ma chiuso in una tomba così come era rimasto.
Alla riapertura del sepolcro, il corpo fu trovato ancora integro, con i capelli un po’ più lunghi e apparentemente in uno stato di sonno profondo. Secondo la leggenda Kūkai non è infatti mai morto, ma rimane tutt’ora in un samadhi eterno, una forma di meditazione perenne. Kūkai divenne così una probabile fonte di ispirazione per quello che più avanti sarebbe stato il percorso per diventare Sokushinbutsu.
Ma qual è effettivamente il percorso che i monaci alla ricerca dell’illuminazione seguivano per mettere alla prova la propria volontà e sfuggire all’eterno ciclo di morte e rinascita a cui è legato il resto del mondo? Questa tradizione, sviluppatasi nel corso del medioevo giapponese, prevedeva un periodo di pesanti sacrifici e una strettissima dieta della durata di 3000 giorni. Questi erano divisi in 3 fasi, di 1000 giorni ciascuna, alla fine della quale il monaco che avesse compiuto il processo alla perfezione sarebbe diventato un Sokushinbutsu, raggiungendo l’illuminazione e lo stato di Buddha venerabile.
All’inizio del nyūjō, il percorso per diventare un sokushinbutsu, il bodhisattva, colui sulla via per l’illuminazione, si ritira nei boschi in solitudine e contemplazione. Qui si dedica ad un duro esercizio fisico e segue una rigida dieta, chiamata mokujiki. Questa dieta richiede l’astenersi dal mangiare cereali, carne e cibi preparati, basando la propria alimentazione principalmente su noci, bacche, resina e ciò che si poteva naturalmente trovare nel bosco.
Questa dieta aveva due scopi: da un punto di vista spirituale, abbinata all’esercizio fisico, era una prova di volontà per il monaco alla ricerca dell’illuminazione, un’iniziale separazione dai bisogni fisici e dai desideri terreni; dal punto di vista scientifico questa dieta aveva invece lo scopo di eliminare quasi totalmente il tessuto adiposo dal corpo del monaco così da permettere il preservarsi del corpo.
La seconda fase del nyūjō è un’evoluzione della prima. La dieta diventa ancora più stringente, il monaco si nutre principalmente di corteccia e radici, seguendo sempre un rigido programma di meditazione, esercizio fisico e abluzioni in acqua gelida. Nelle fasi finali di questa seconda fase il monaco smetterà completamente di bere acqua, sostituendola con un particolare infuso derivato dall’urushi, un particolare albero giapponese la cui linfa tossica viene usata per laccare le ceramiche. Questo infuso tossico, unito alle già pesanti privazioni, porta al monaco pesanti sintomi fisici ma rende il suo corpo tossico per gli insetti e le larve che se ne nutrirebbero dopo la morte.
Completate queste due fasi il monaco è quindi pronto per diventare un sokushibutsu. Seduto in posizione del loto, viene chiuso in una cripta strettissima a basso contenuto di ossigeno, così da limitare l’attività dei batteri. Qui passa i suoi ultimi giorni in meditazione, cantando dei mantra sul buddha, con solo una canna di bambù a garantirne la respirazione. A questa viene attaccata una campanella che il monaco fa suonare regolarmente fino al giorno in cui, infine, sopraggiunge la morte. I monaci che vegliano su questo processo sigillano così il sepolcro per altri mille giorni, alla fine dei quali potrà essere riaperto per scoprire se il percorso è stato compiuto con successo e se il monaco è così diventato un Sokushinbutsu.
Come è stato detto a garantire il successo di questo percorso di martirio sono diverse ragioni scientifiche. I primi 2000 giorni di dieta ferrea hanno lo scopo di eliminare completamente i grassi dal corpo, disidratarlo e renderlo tossico per gli organismi che se ne ciberebbero. Curiosamente inoltre, la maggior parte dei Sokushibutsu sono stati ritrovati nel territorio delle tre montagne di Dewa, una zona del Giappone in cui le acque presentano alti livelli di arsenico, sostanza usata anche in altri processi di mummificazione.
Questa pratica è stata infine abolita nel 1879 dall’imperatore Meiji, che ha decretato illegale ogni forma di suicidio assistito, anche a fini religiosi. Tuttavia ancora oggi i Sokushinbutsu sono conservati all’interno di templi appositi e venerati da migliaia di fedeli. Che si creda o meno al Samsara e alla reincarnazione, rappresentano per molti un esempio di totale dedizione e inconcepibile forza di volontà garantendo così, anche se non come era stata intesa, l’immortalità per coloro che hanno portato a termine questo incredibile cammino.
Sono Francesco Alonci, laureato in Psicologia. Ho studiato Psicologia Cognitiva Applicata a Padova, città in cui tutt’ora vivo. Sono da sempre stato affascinato dal comportamento umano, da dove questo nasca e come si sviluppi. Sono inoltre un musicista, avido lettore e amante di videogiochi, cinema e cultura pop.