Settembre 8, 2024

“Terra e acqua”: uno sguardo alternativo sulle Guerre persiane

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Alla vigilia delle Guerre persiane messaggeri si recarono in Grecia per chiedere "terra e acqua": si trattava di schiavitù o diplomazia?

Con l’espressione “Guerre persiane” (in greco ta Medika) gli antichi Greci intesero riassumere gli eventi degli anni 480-479 a.C., quando un esiguo numero di città greche affrontò, e infine respinse, il multietnico esercito persiano guidato dal Re Serse, della dinastia degli Achemenidi.

Alla luce dell’insperata vittoria che ne era conseguita, nell’immediato dopoguerra il sacrificio delle Termopili e i trionfi di Salamina e Platea subirono un profondo processo di rilettura in chiave fortemente “ellenocentrica”: in sostanza, le eroiche gesta dei Greci divennero testimonianza del loro incondizionato amore per la libertà, laddove le azioni, gli usi e i costumi persiani vennero indiscriminatamente bollati come manifestazioni di dispotismo e violenza (hybris).

In quest’ottica venne intesa anche la formula della richiesta di “terra e acqua”, con la quale, alla vigilia del conflitto (481 a.C.), gli ambasciatori persiani si erano presentati alle città della Grecia. Nella Retorica, scritta cento anni più tardi, Aristotele argomentava che concedere “terra e acqua” significava, né più né meno, “comportarsi da schiavo” (douleuein). Ma era davvero questo il senso che i Persiani attribuivano all’espressione?       

Wilhelm von Kaulbach, La battaglia di Salamina, 1868, Maximilianeum, Monaco di Baviera

L’inscindibile binomio terra-acqua

Trasmessaci dal greco Erodoto, che scrisse della guerra una cinquantina d’anni più tardi, la formula è rimasta a lungo ai margini dell’interesse degli studiosi, che si sono limitati a parlare di generici simboli di sottomissione.

In assenza di fonti persiane coeve agli eventi, non è facile risalire al valore simbolico genuino del binomio terra-acqua. Tuttavia, che il nesso tra i due elementi fosse ben radicato nella diplomazia del mondo iranico trova conferma ancora nella prassi del III secolo d.C.

Nella sua Storia degli Armeni, infatti, Fausto di Bisanzio racconta che il sovrano sasanide Shapur I (241-272 d.C.), per provare la fedeltà del sovrano d’Armenia ribelle, gli chiese di prestare giuramento sostando su un cumulo di terra, asperso d’acqua, con il quale era stato ricoperto il suolo della sua tenda.

Questo legame tra la terra e l’acqua, peraltro, sembra emergere anche dalla resa della formula in greco antico, che recitava ghen te kai hydor (appunto “terra e acqua”). In particolare, il nesso te kai, generalmente tradotto in italiano con “e”, viene letto da Giuseppe Nenci come “e quindi”, a sottolineare che l’acqua (hydor) venne intesa da orecchie greche in unione inscindibile con la terra (ghe).

Tale concezione, del resto, risultava tutt’altro che estranea ai Greci, abituati dal pensiero filosofico presocratico a concepire in coppia questi due elementi primordiali. In questi termini, lo scarto culturale tra Greci e Persiani non dovette essere tale da rendere incomprensibile o equivoca la natura della richiesta persiana.

Altrettanto chiaro, inoltre, era che i messi di Serse si aspettavano la concreta concessione di un po’ di terra e un po’ d’acqua da parte delle città greche. Questa concretezza, in particolare, è stata messa in relazione con i bassorilievi che decoravano le scalinate dell’Apadana di Persepoli, la sala delle udienze dei Re Achemenidi. Qui, infatti, le delegazioni dei popoli che recano doni al sovrano mostrano gli offerenti portare vasi e piccoli recipienti, adatti forse a contenere un certo quantitativo proprio di terra e acqua.

Rappresentanti del popolo di Lidia recano doni al Gran Re, VI-V secolo a.C., Apadana di Persepoli (Shiraz, Iran)

Significato e valore storico della formula

Privata dunque di ogni filtro interpretativo più tardo e tendenzioso, recenti studi sostengono che la richiesta non implicasse una riduzione in schiavitù, bensì una sorta di “sottomissione formale”: qualora i Greci avessero riconosciuto la superiorità del Gran Re, questi avrebbe rinunciato ad ogni forma di ostilità. Si trattava, di fatto, di un accordo diplomatico di duplice garanzia, precedente la negoziazione di ogni altro obbligo e beneficio reciproci.

Del resto, con una schiettezza non comune per lo spirito del suo tempo, Erodoto racconta che la maggior parte delle città, lungi dal far fronte comune contro i Persiani, offrì “terra e acqua” a Serse. La narrazione dello storico dimostra quindi l’ampia disponibilità dei Greci alla collaborazione, consci del fatto che, all’interno del mondo persiano, i rapporti sociali e politici potevano articolarsi in modo assai più complesso e diversificato dell’asservimento in senso stretto.

Con ciò non intendo negare l’importanza storica che deve riconoscersi alle Guerre persiane quale momento di snodo fondamentale per la storia dei Greci. L’opposizione di città quali Atene e Sparta, infatti, non portò solo allo scontro sul campo, ma contribuì in maniera decisiva anche all’elaborazione di una forte consapevolezza identitaria greca – da cui, di riflesso, quella occidentale – formatasi nell’ottica della contrapposizione ideologica con un mondo “altro”, caratterizzato da un’opposta visione dell’uomo e dello stato.

Tuttavia, l’enfatizzazione tendenziosa del distacco da questo “altro” rischia oggi di ostacolare la corretta lettura dei fatti storici, limitando, al tempo stesso, la nostra capacità di comprensione della cultura persiana. In questi termini, la rivalutazione del significato della richiesta di “terra e acqua” rappresenta uno dei tanti tasselli che, nel grande puzzle delle Guerre persiane, è bene ricollocare al posto giusto.

Per approfondire:

A. Kuhrt, Earth and Water, in Achaemenid History III. Method and Theory, Leiden 1988, pp. 87-99;

G. Nenci, La formula della richiesta della terra e dell’acqua nel lessico diplomatico achemenide, in Linguaggio e terminologia diplomatica dall’Antico Oriente all’Impero Bizantino, Roma 2001, pp. 31-42;

P. Vannicelli, L’Epoca delle guerre persiane, in Storia d’Europa e del Mediterraneo, III, Roma 2007, pp. 561-598.

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