Dante o “colui che dà”, scrittore o profeta?
5 min readQuest’anno ricorrono i settecento anni dalla morte di Dante: conosciamo tutti molto bene una delle Tre Corone, nome utilizzato per indicare i tre autori fondanti della Letteratura Italiana, Dante, Petrarca e Boccaccio, e ancora oggi una delle sue opere maggiori e più studiate, la Divina Commedia, persiste nel lasciarci perplessi per la sua aura misteriosa.
Il problema principale della Divina Commedia risiede nella mancanza di un autografo: in questo modo sono giunti a noi più di ottocento manoscritti, tra frammenti e opere intere, tra cui compaiono anche gli autografi di Boccaccio, il primo a fare quelle che anche oggi vengono chiamate “lecturae dantis”: letture in pubblico di passi danteschi. Il fatto che Boccaccio stesso ne facesse delle letture già nel ‘300 dimostra quanto la diffusione dell’opera fosse già largamente sviluppata e come essa fosse già importante a livello popolare, tanto da crearne presto una vulgata, una versione che veniva ripetutamente ricopiata in ambito longitudinale nel tempo.
La mancanza di un autografo dantesco ha però provocato una serie di problemi filologici per gli studiosi moderni e contemporanei: si è dovuta attuare spesso una congettura in punti critici dell’elaborato, quando il testo non risultava comprensibile, e quest’ultima è stata spesso fatta ope ingenii, ossia tramite l’intelletto del filologo, attraverso criteri filologici ben conosciuti che ne garantiscono una correttezza almeno in termini ipotetici. Per esempio, spesso si valuta la bontà di una congettura scegliendo in base all’usus scribendi dell’autore, ossia guardando le altre opere e valutando come egli di solito scrive. Purtroppo, per quanto riguarda il caso particolare dantesco, non possediamo nessun autografo neanche di altre opere, rendendo difficile l’utilizzo di questo criterio.
In ogni caso, oggi, viene accettata universalmente la versione critica di Giorgio Petrocchi, benché essa non si fondi su uno studio approfondito di tutti i manoscritti esistenti, come si dovrebbe tecnicamente fare in filologia, ma su una cernita, su una scelta personale che si basa sui manoscritti di quella che Petrocchi chiama “antica vulgata”, ossia quei testi compresi tra i primi manoscritti esistenti, che risalgono già a poco dopo la morte di Dante nel 1321, e il 1355, anno in cui nacque la nuova vulgata dettata dagli scritti di Boccaccio.
Comunque, nonostante la versione di Petrocchi rimanga fondamento, per esempio, per le edizioni scolastiche, persistono spesso dei dubbi filologici che permettono a molti studiosi di proporre le proprie congetture.
Oggi, per festeggiare questa ricorrenza storica, risulta lecito a questo punto analizzare un passo critico di interesse sia filologico che contenutistico: si tratta di un passo del canto XXVI del Paradiso, in cui Dante incontra Adamo, nell’ottavo cielo, e questi riesce a leggere nella mente di Dio le domande che Dante vuole porgli: Quale fu la lingua parlata da Adamo? Quanto è passato dalla creazione di Adamo? Quanto tempo Adamo è rimasto nell’Eden? Quale fu la colpa per la cacciata dall’Eden?
Riguardo al problema linguistico, Dante se ne occupava da sempre: basti pensare al De Vulgari Eloquentia, dove afferma che la lingua di Adamo si fosse mantenuta intatta nel popolo ebraico. A differenza del De Vulgari Eloquentia, nella Divina Commedia, l’idea portata è un’altra: in quest’opera egli ritiene che la lingua di Adamo fosse una lingua naturale ormai andata perduta, sottolineando la naturalità dell’atto linguistico. Ai versi 103 – 108, si svela il problema filologico:
Indi spirò: «Sanz’essermi proferta
da te, la voglia tua discerno meglio
che tu qualunque cosa t’è più certa; 105
perch’io la veggio nel verace speglio
che fa di sé pareglio a l’altre cose,
e nulla face lui di sé pareglio.
[quindi Adamo fece uscire queste parole: « senza che mi sia detto / da te, io distinguo il tuo desiderio meglio / di quanto tu comprenda qualunque cosa a te più sicura; / la tua voglia io la vedo nello specchio veritiero / che riflette tutte le altre cose come sono / mentre nessuna può fare di sé pari a lui.]
Al verso 104 nell’apparato dell’edizione critica, al posto di “da te”, una possibile variante riporta “Dante” facendo dire ad Adamo il nome dell’autore: in tutta l’opera solo una persona nomina Dante, Beatrice, nel XXX canto del Purgatorio, e Dante – autore, in quel punto, sente il bisogno di giustificare il fatto di aver scritto il suo nome all’interno dell’opera. La stessa cosa era stata fatta da Virgilio, che utilizza questa possibilità come una sorta di “firma” all’interno dell’elaborato. Per quale motivo, allora, la variante filologica all’interno del passo del Paradiso analizzato, risulta così interessante?
Perché Adamo fu il primo a usare la lingua, il primo a dare il nome alle cose. Da una parte abbiamo la rappresentazione del privilegio di Beatrice nel portare nella Commedia il nome dell’autore, e l’opera diventa così un’ascesa di un uomo verso la sua amata; ma se anche Adamo chiama Dante, allora Dante rappresenta l’umanità, essendo riconosciuto in questo modo dal progenitore di tutti gli uomini. Il Medioevo, da questo punto di vista, portava con sé una concezione interessante: “nomina sunt consequentia rerum” [i nomi corrispondono alla realtà delle cose]. Dante diventa così il participio presente del verbo “dare”, diventando, con la voce di Adamo, colui che è destinato a dare buona educazione e buon esempio agli uomini, seguendo la dottrina dell’interpretatio nominis.
Marco Santagata tratta di quanto descritto in questo passo nelle sue “20 finestre sulla vita di Dante” descrivendo come Dante stesso si sentisse un profeta, un predestinato, e si comportasse come tale: “[…] della personalità di Dante, infatti, l’aspetto più rilevante è il suo sentirsi diverso e predestinato. […] È un’idea che ha cominciato a nutrire fin da giovane e che si rafforzerà nel tempo fino a sfociare nella convinzione di essere stato investito da Dio della missione profetica di salvare l’umanità.”
Dopo aver conseguito il diploma in scienze umane, un atto di follia mi ha spinto a proseguire con un percorso di laurea in scienze biologiche che, rivelatosi fallimentare, ha spinto lo Zeno Cosini che c’è in me ad iscrivermi al corso triennale di Lettere Moderne, per poi fuggire dalla realtà caotica di Milano, per trasferirmi nella ridente Perugia, dove attualmente studio Insegnamento dell’Italiano agli stranieri, per portare qualcosa dell’Italia anche fuori dalla Penisola.
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