AGRICOLTURA DEL FUTURO: INTERVISTA A LUIGI MARIANI
6 min readQuando è nato il Museo di Storia dell’Agricoltura, e perché si è pensato di aprirlo?
Il Museo, che ha sede nel Castello Bolognini di Sant’Angelo Lodigiano, nasce quarant’anni orsono per iniziativa dell’allora preside dalla facoltà di agraria Elio Baldacci che era un illustre fitopatologo (è suo il primo modello sviluppato a livello mondiale per la simulazione del ciclo di infezione della peronospora della vite che aprì possibilità inedite in termini di difesa guidata). L’idea di partenza era quella di sviluppare un museo che offrisse un visione storica, etnografica e antropologica, non limitandosi quindi a una semplice raccolta di oggetti della civiltà contadina. Per capire l’importanza di offrire ai nostri concittadini una tale visione basta considerare che la nascita dell’agricoltura (rivoluzione neolitica) scatena energie che portano alla nascita delle prime città e ai primi esempi di divisione del lavoro e che porteranno a partire dal IV millennio a.C. alla genesi delle grandi civiltà monumentali (civiltà mesopotamiche, civiltà egizia, civiltà indiana, civiltà cinese, ecc.) aprendo la strada a un ulteriore progresso che vedrà l’impiego in agricoltura dei metalli (bronzo, ferro). Seguono la grande sintesi romana e araba, la rivoluzione agricola del basso medioevo e così via, per giungere alle grandi scoperte che nel XIX secolo rivoluzionano il modo di fare agricoltura e sono relative ad esempio ai settori della genetica (Gregory Mendel), della fisiologia e dell’agrochimica (Nicholas Theodore de Saussure, John Lawes e Joseph Gilbert, Justus Liebig, ecc.) e della meccanica agraria (Andrew Meikle, Cyrus McCormick, John Froelish, ecc.). Tali scoperte trovano poi il loro ideale ambito di applicazione nel XX secolo, allorché il quadruplicamento della popolazione mondiale non si trasforma in un’immane catastrofe malthusiana grazie alla moltiplicazione per 4 – 6 volte delle rese ettariali delle cinque grandi colture che oggi garantiscono il 70% del soddisfacimento del fabbisogno proteico e calorico dell’umanità (mais, frumento, riso, sorgo e soia). Su questa storia si riflette oggi troppo poco ed esiste un diffuso deficit di conoscenze nella collettività, deficit che poi ci penalizza quando dobbiamo operare scelte decisive per il futuro del nostro sistema agricolo-alimentare.
Cosa può insegnarci la Storia dell’ Agricoltura a proposito di O.g.m. e biotecnologie?
Ci insegna a cogliere il fatto che da sempre l’uomo imita quanto accade in natura potenziandolo e ciò vale sia per insetticidi, concimi di sintesi, diserbanti e irrigazione sia per il trasferimento di geni da una specie all’altra. Ad esempio il grano con cui si fa il pane (grano tenero – Triticum aestivum) ha 42 cromosomi ed è stato ottenuto fra 6 e 9000 anni fa a partire da frumenti selvatici che di cromosomi ne hanno 14, con un aumento nel numero dei cromosomi avvenuto perché sono stati introitati i patrimoni genetici di due specie selvatiche (Aegilops speltoides e Aegilops tauschii) che addirittura appartengono a un genere diverso da quello del frumento. E’ un po’ come se i 2/3 del patrimonio genetico umano provenissero da un lemure. Il grano tenero è dunque un OGM ante-litteram, ottenuto da nostri progenitori benemeriti che nulla sapevano di biotecnologie ma che sapevano benissimo riconoscere spighe più grandi e dunque più produttive. Un discorso analogo si può fare per il frumento da grano e da pasta, il grano duro, che di cromosomi ne ha 28 e per tante altre specie che contengono DNA esogeno. In sostanza producendo OGM non facciamo altro che imitare quanto la natura fa da milioni di anni e lo facciamo in modo molto più rapido, mirato e sicuro e con vantaggi potenziali enormi che vengono oggi vanificati da un rifiuto preconcetto (oggi gli OGM per l’alimentazione zootecnica possiamo importarli ma non coltivarli).
L’agrometeorologia è la disciplina scientifica a cui ha dedicato moltissime energie. In che modo le potenzialità del calcolo distribuito possono essere dispiegate a suo favore?
L’agrometeorologia studia gli effetti delle variabili atmosferiche (temperatura, pioggia, vento, ecc.) sulle piante coltivate e più in generale sull’agro-ecosistema. Tale attività comporta la gestione di grandi moli di dati sui quali operare con modelli di analisi e previsione. In tal senso usufruiamo da tempo di grandissime risorse di calcolo distribuito in quanto fruitori dei modelli meteorologici previsionali a breve e medio termine (da poche ore in avanti fino a 15 giorni). Un primo ambito operativo su cui dirigere risorse di calcolo distribuito è quello legato alla descrizione della variabilità meteorologica a microscala a cui si assiste all’interno di un campo coltivato. La scommessa è tuttavia quella di rendere prodotti di questo tipo competitivi e interessanti per i produttori, il che è oggi ancora di là da venire.
Le sue attività di ricerca hanno coinvolto attività di remote sensing da satellite. Quanto sono importanti tali attività?
Mi sono trovato di recente a sfruttare il remote sensing da satellite per calibrare e validare un modello micrometeorologico in grado di analizzare l’andamento delle diverse variabili atmosferiche all’interno di un grande parco urbano, il Parco Nord di Milano. In precedenza mi era anche capitato di collaborare con un gruppo di ricerca del politecnico specializzato in radarmeteorologia in un progetto promosso da ESA per ottimizzare le emissioni da satelliti per telecomunicazioni in funzione dell’andamento meteorologico. In base a tali esperienze posso dire che il remote sensing, sia da satellite che da droni, ha grandi possibilità di sviluppo in agricoltura e che valga le pena di investire in ricerca integrando i suoi prodotti in sistemi di supporto alle decisioni degli imprenditori agricoli.
Qual è a suo avviso la strada giusta da seguire per garantire la sostenibilità dell’agricoltura del futuro? E’ giusto continuare a intensificare o, come sostengono i seguaci del “Bio”, occorre addivenire ad agricolture meno intensive?
Vede, da quando negli anni ’60 del XX secolo la popolazione mondiale ha superato i 3 miliardi di abitanti, l’agricoltura intensiva non è più un’opzione ma una necessità imprescindibile. Se ne sono resi conto tre ricercatori dell’università di Stanford – Jennifer Burney, Steven Davis e David Lobell – i quali hanno evidenziato che se a livello mondiale nel 1965 si fosse rinunciato all’innovazione tecnologica, realizzando in sostanza quanto auspicano da sempre i seguaci del biologico, l’agricoltura oggi si troverebbe a coltivare 3,2 miliardi di ettari anziché gli 1,5 attuali, con enormi distruzioni di ecosistemi forestali e si prateria. Inoltre le emissioni agricole annue, per effetto degli imponenti dissodamenti imposti da una simile espansione delle aree agricole, sarebbero salite a 6 gigatonnellate di carbonio contro le 1,4 attuali. In sostanza dunque per il futuro non ci sono alternative a un’“intensificazione sostenibile”. Si tenga peraltro conto che oggi in Italia produciamo il 70% del cibo che consumiamo e ad esempio importiamo oltre il 50% del frumento con cui facciamo pane e pasta e il 35% dei mangimi zootecnici con cui produciamo i formaggi grana e i prosciutti crudi, che insieme a vino e pasta sono i nostri maggiori prodotti alimentari da esportazione. Se in futuro l’Italia dovesse rinunciare all’agricoltura intensiva abbracciando la moda del biologico produrremmo sempre meno aumentando sempre più la nostra dipendenza dall’estero, il che come scelta strategica mi pare sciagurata, anche perché spingerebbe paesi con territori fragili come quelli dell’area amazzonica a dissodare per rifornirci delle derrate che noi non produrremmo più. Il guaio è che oggi in Europa una scelta analoga è oggi vagheggiata anche da un paese come la Francia, che per decenni è stata un faro per l’agricoltura intensiva, e qui non posso che concordare con il giudizio drastico di Jean de Kervasdoué, ingegnere agronomo e già consigliere agricolo sotto Mitterand, il quale contro tale scelta ha scritto un bellissimo libro dall’emblematico titolo “Ils ont perdu la raison”.
Ringraziamo sentitamente il Professor Luigi Mariani per averci concesso l’intervista.
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