Aiutare gli altri: la base dell’evoluzione umana
9 min readFunghi, api e Hong Kong: le società cooperative
Perché l’homo sapiens ha sempre preferito condividere con altri suoi simili un pasto nel bel mezzo della savana piuttosto che cibarsi in solitudine in una caverna?
La “co-operazione”, l’operare per uno scopo condiviso, sta alla base della società umana, e permette lo scambio di favori e reciproci interessi. A dire il vero, la cooperazione e l’aiutare il proprio vicino sembra essere il fattore principale che ha permesso ad un essere privo di artigli, con una ridotta pelliccia e con denti più adeguati a masticare bacche che a strappare la carne, di sopravvivere e conquistare il globo terracqueo.
Cosa hanno in comune un fungo allucinogeno, un’ape operaia e un artigiano di Hong Kong? Oltre alla capacità di creare complesse creazioni artistiche ( indurre allucinazioni visuo-auditive, costruire un complesso network di stanze esagonali all’interno di un alveare e assemblare una magnifica pipa da oppio), queste tre creature diverse hanno la capacità di riunirsi strategicamente in gruppi organizzati di esseri viventi che collaborano per un medesimo scopo, scegliendo di mettere in secondo piano la propria unicità, e agendo per garantire la sopravvivenza della propria specie. Centinaia di funghi Psilocybe cubensis per esempio sono capaci di condividere un medesimo micelio, un network di filamenti sotterranei esteso anche per diversi chilometri, che permette di scambiare costantemente informazioni e nutrienti. Le api invece si riuniscono in colonie gerarchicamente organizzate che possono raggiungere i 90’000 individui per un singolo alveare, distinguendo diverse classi sociali e occupazioni che garantiscono la sopravvivenza della colonia. La città murata di Kowloon ad Hong Kong, nel 1989 prima di essere sgomberata e demolita ospitava, oltre a una vita criminale molto florida dedita allo spaccio di oppio e allo sfruttamento della prostituzione, una popolazione di 50’000 persone comuni stipate all’interno di un’area di 0,026km2, l’equivalente di 3 campi da calcio. La città è stata fondata su un vecchio forte militare, progressivamente occupato da persone rifiutate dalla società, e ha finito per ospitare edifici abusivi alti 14 piani. La società che viveva al suo interno era dotata di un sistema di regole e leggi indipendenti, di un sistema fognario autonomo e di negozi, attività e luoghi di ritrovo per la popolazione. La coesistenza e la convivenza sono dunque fattori nucleari delle società più complesse che possono contare su un network di relazioni di interazione e collaborazione che assicurano costantemente il proliferare e l’evolversi della specie, anche nelle condizioni più avverse.
Prosocialità come “amore”
Ma cosa differenzia lo scambio strategico di risorse dall’agire per il bene dell’altro? Con il termine “prosocialità” si intende qualsiasi forma di azione volontaria eseguita a beneficio degli altri individui per migliorare il loro benessere e prendersi cura della loro sopravvivenza [1]. E’ una caratteristica non propriamente umana, e diversi organismi sembrano essere capaci di questi comportamenti, dai corvi ai ratti arrivando fino agli elefanti e ai primati. Parlando dell’essere umano, il costrutto di prosocialità raccoglie sotto di sé diverse azioni come offrire, aiutare, condividere, sostenere e valorizzare, rispettando l’individualità e sentendosi responsabili sia degli ambienti che delle persone. Numerosi biologi evoluzionisti si sono interrogati per secoli circa la vera utilità dell’aiutare gli altri: evolutivamente potrebbe risultare paradossale l’idea che l’altro sia una risorsa per la mia sopravvivenza, considerando la maggiore difficoltà nel procurare nutrimento a entrambi e il rischio costante di tradimento. Spesso infatti mettere in atto comportamenti prosociali comporta rischi o costi per chi li compie [2], tuttavia gli stessi comportamenti giocano un ruolo di fondamentale rilevanza nella qualità dei rapporti interpersonali contribuendo al buon funzionamento delle società. I biologi di fama internazionale Humberto Maturana e Francisco Varela [3] ritengono che l’unicità dell’essere umano risieda in un processo relazionale fatto di tre fasi interconnesse che permettono l’emergere dei comportamenti prosociali: la prima caratteristica fondamentale sta nella capacità degli individui di costruire tramite la relazione e il linguaggio, che permettono al soggetto di porsi di fronte a un punto di vista “esterno”, la propria coscienza individuale; il secondo passaggio implica la capacità di riconoscere che la realtà è costituita da un network di relazioni tra organismi che hanno le medesime caratteristiche di auto-coscienza; l’ultimo passaggio sta in quel processo relazionale di interdipendenza e collaborazione costante che i due biologi chiamano poeticamente “amore”, descritto come un fenomeno squisitamente biologico-relazionale: una serie di relazioni e azioni attraverso i quali l’altro-da-me emerge come “legittimo coesistente”, dove la legittimità della propria sopravvivenza e di quella dell’altro non viene negata nemmeno nel disaccordo. La prosocialità dunque rappresenta un fenomeno sociale che regola e bilancia l’interazione dei pari e la sopravvivenza pacifica del gruppo orientata a uno scopo comune.
Segreti egoisti o ipocriti altruisti?
L’umanità è divisa da tempo immemore da un dilemma esistenziale: la spinta ad aiutare qualcuno nasce dalla motivazione disinteressata di fare del bene o dalla necessità egoistica di estinguere sensi di colpa personali ed elevarsi di fronte agli altri?
La letteratura scientifica dimostra che esistono due sfaccettature della prosocialità, la prosocialità altruistica e la prosocialità egoistica. La prima riguarda la motivazione ad impegnarsi per raggiungere benefici altrui senza l’attesa di una ricompensa, anche a rischio della propria incolumità personale. La seconda riguarda invece una prospettiva maggiormente incentrata sul guadagno personale, nonostante il comportamento messo in atto possa portare anche a benefici altrui. Tra le motivazioni egoistiche i ricercatori Grueneisen e Warneken [4] individuano per esempio il raggiungimento di un secondo fine, di un certo status sociale, e dell’approvazione altrui. Gli autori hanno scelto inoltre di collocare le motivazioni sottostanti i comportamenti prosociali su un continuum che include spinte altruistiche, mutue ed egoistiche. Diventa dunque chiaro che le motivazioni altruistiche ed egoistiche non siano mutualmente esclusive. Secondo gli studiosi è possibile distinguere i comportamenti prosociali in tre principali categorie: comportamenti di aiuto (helping), condotte di condivisione delle proprie risorse (sharing), e azioni di conforto o consolazione verso chi è in difficoltà (comforting). I ricercatori hanno dimostrato come le motivazioni si modifichino nel corso dello sviluppo della persona: nei primi anni di vita i bambini mettono in atto comportamenti prosociali guidati principalmente da sentimenti di compassione. Intorno ai 14 mesi, iniziano a costruire un pattern di azioni prosociali ripetute in relazione ad adulti con cui hanno precedentemente interagito attraverso scambi reciproci. Man mano che i bambini crescono, migliora anche la loro capacità di pianificare la messa in atto di comportamenti prosociali utili alla propria causa: emergono intorno ai 5 anni i primi comportamenti che hanno l’obiettivo di incrementare la propria reputazione e ottenere strategicamente favori in cambio. In generale gli autori affermano che il sistema nervoso dell’individuo, maturando nel tempo, aumenta di fatto anche le possibilità della persona di incrementare le proprie anticipazioni sul mondo delle relazioni: più fa esperienza, più la persona riesce ad anticipare i diversi scenari relazionali e più diventa capace di analizzare il contesto sociale e pianificare azioni che possano essere utili all’altro e a se stessi. Questo non significa che crescendo diventiamo creature meno compassionevoli ma che, col tempo, diventa fondamentale per l’individuo aiutare specifiche figure della propria rete sociale, in modo tale da assicurarsi a propria volta un sostegno sicuro in caso di bisogno. Essendo questa dinamica condivisa da tutti i membri del gruppo sociale, evolutivamente le specie tendono a favorire una sempre maggiore selettività nel scegliere gli individui “degni” di ricevere il proprio aiuto, che vengono progressivamente inclusi nel proprio ingroup di riferimento: per questo risulta più semplice e più probabile mettere da parte i propri bisogni per aiutare un familiare o un amico in difficoltà, rispetto alla possibilità di aiutare uno sconosciuto per strada.
Eppure, secondo i dati ISTAT, ogni anno in Italia il 10% della popolazione prende parte abitualmente a iniziative di volontariato per aiutare persone spesso sconosciute: come è possibile spiegare questa forma di prosocialità allargata a individui che esistono al di fuori del proprio gruppo di riferimento?
Soffrire insieme: il ruolo della compassione
Perché gli esseri umani sono dunque capaci di aiutare anche sconosciuti senza aspettarsi nulla in cambio, sperimentando invece grande soddisfazione e benessere?
Il filone della ricerca psicologica che si occupa di analizzare il comportamento prosociale enfatizza l’importanza fondamentale della compassione come precursore e motivatore principale della prosocialità. La compassione è definita come la profonda consapevolezza e la possibilità di fare esperienza della sofferenza dell’altro, e implica il desiderio di alleviare il suo dolore. Il termine, nella lingua italiana, ha assunto progressivamente un significato assimilabile al concetto di “provare pietà”, che genera un’asimmetria radicale tra la persona sofferente e l’osservatore. Il significato etimologico originale invece deriva invece dal latino “cum-patiri” che significa letteralmente “soffrire insieme”, e che implica non solo in riconoscimento della sofferenza dell’altro ma anche la possibilità di farne esperienza diretta, immedesimandosi e motivando quindi la volontà di estinguerla. Diversi aspetti emotivi della persona concorrono nel favorire l’esperienza compassionevole, primo fra tutti il sentimento che più di tutti spinge e motiva alla relazione: l’empatia. Per empatia si intende la capacità di comprendere e condividere l’esperienza emotiva di qualcun altro, mettendosi nei suoi panni. Da una parte l’empatia permetterebbe quindi di sentire e sintonizzarsi con le emozioni dell’altro, in particolar modo con quelle negative che implicano una richiesta di aiuto. Dall’altra l’empatia consente all’individuo che aiuta di sperimentare lo stesso sollievo che la persona in difficoltà percepisce nel momento in cui riceve un aiuto, aumentando così indirettamente il proprio benessere psicologico. L’empatia da sola non è però in grado di spiegare la capacità di un individuo di aiutare in modo disinteressato in quanto non sempre il fare esperienza insieme a qualcuno di un’emozione implica automaticamente la messa in atto di un’azione prosociale. Sembra infatti che uno dei fattori più importanti sia la capacità di regolazione emotiva, che permetterebbe all’individuo che fa esperienza empaticamente della sofferenza dell’altro e di regolare le proprie emozioni in modo tale da concentrarsi sui bisogni altrui, diventando dunque capaci di investire attivamente le proprie energie aiutando. Da una ricerca infatti emerge che bambini e adulti con minore capacità di regolazione emotiva tendono a sperimentare minore empatia nei confronti della sofferenza altrui portando dunque a una ridotta capacità e probabilità di aiutare efficacemente altri individui [5].
Quali sviluppi per l’evoluzione della società?
La ricerca scientifica si sta concentrando negli ultimi 30 anni nello studio di strategie e tecniche che possono aiutare gli individui a migliorare la propria capacità di regolazione emotiva e che permettono di coltivare un punto di vista maggiormente compassionevole nei confronti della sofferenza propria e altrui favorendo un atteggiamento maggiormente prosociale. L’università di Harvard [6] ha individuato quattro modalità utili a questo scopo:
- Pratiche di gentilezza amorevole: meditazione buddhista Metta, tecniche di Loving-Kindness, volontariato
- Pratiche di consapevolezza: meditazione Vipassana e Zen, tecniche di Mindfulness
- Tecniche di rilassamento corporeo: rilassamento progressivo, training autogeno e yoga
- Pratiche di gratitudine: preghiere religiose, meditazione, gratitude journalling.
Promuovere comportamenti prosociali di fatto significa poter migliorare la coesione di una società che si spinge progressivamente verso un maggiore individualismo e solipsismo e che rischia progressivamente di mettere l’altro-da-me agli antipodi del proprio mondo quotidiano. Recuperando il contributo di Maturana e Varela, la società può esistere solo nella reciproca e interdipendente motivazione ad aiutare il prossimo per il proprio bene e per il bene della società estesa: l’amore, per i due ricercatori cileni, non è una virtù astratta, bensì il fondamento concreto della società che permette alla specie di sopravvivere e portare avanti nel futuro la propria linea evolutiva nonostante gli ostacoli del presente. Parafrasando una citazione di Gandhi sempre più attuale, la psicologia evoluzionistica ci insegna che non bastano le guerre sanguinose, l’individualismo galoppante e le memoria corta insita nell’essere umano a cancellare i 4,2 milioni di anni di prosocialità quotidiana, la quale silenziosamente ha permesso ai nostri lontani antenati australopitechi di sopravvivere nelle prime comunità umane e di evolversi progressivamente fino ai giorni nostri.
“Non devi perdere fiducia nell’umanità. L’umanità è un oceano: se poche gocce dell’oceano sono sporche, l’oceano non diventa sporco”
Mahatma Gandhi
Bibliografia e Sitografia
- [1] Eisenberg, N., Fabes, R. A., & Spinrad, T. L. (2006). Prosocial Development. In N. Eisenberg, W. Damon, & R. M. Lerner (Eds.), Handbook of child psychology: Social, emotional, and personality development (6th ed., pp. 646–718). John Wiley & Sons, Inc.
- [2] Twenge, J. M., Baumeister, R. F., DeWall, C. N., Ciarocco, N. J., & Bartels, J. M. (2007). Social exclusion decreases prosocial behavior. Journal of personality and social psychology, 92(1), 56–66.
- [3] Maturana, H., & Varela, F. G. (1984). El arbol del conocimiento. [The Tree of Knowledge]. Santiago: Editorial Universitari.
- [4] Grueneisen, S., & Warneken, F. (2022). The development of prosocial behavior: From sympathy to strategy. Current Opinion in Psychology, 43, 323–328
- [5] Hui B. P. H., Ng J. C. K., Berzaghi E., Cunningham-Amos L. A., Kogan A. (2020), «Rewards of kindness? A meta-analysis of the link between prosociality and well-being», Psychological Bulletin
- [6] https://www.health.harvard.edu/mental-health/4-ways-to-boost-your-self-compassion
Sono Andrea Craighero e sono Psicologo, Psicoterapeuta in formazione e insegnante di tecniche Mindfulness. Attualmente lavoro nell’ambito della migrazione e della salute mentale, ma sono anche un avido lettore, uno scomodo viaggiatore e un apprendista tatuatore. Tante cose in testa, tanta fame nel petto. Ho studiato all’Università di Padova e alla Tilburg University (Paesi Bassi) e mi sto specializzando come psicoterapeuta all’ Institute of Constructivist Psychology (ICP). Ho sempre cercato di lavorare nell’ambito della marginalità e dell’interculturalità sia come clinico che in un progetto di photoreportage che nel 2019 mi ha portato a vivere per un mese nelle montagne nel Nord dell’Albania.