Anatomia del genio: i tratti comuni alle grandi menti
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Il tintinnio vivace di una sveglia, o l’inno fiammante d’un gallo roco. Per altri, dei rapaci che volteggiano solinghi intonando un concerto dalla macabra cadenza. Versi, questi ultimi, che suscitano terrore; un terrore che sfuma in un attimo nella percezione confortante che deriva dall’aver intuito che quelle creature custodiscono una sensibilità così simile alla sua. Si alza dal letto, pronto a squarciare col fulgore del proprio ingegno la tetra caligine della notte. Potrebbe occuparsene il sole, ma sarebbe uno spettacolo anonimo nella sua maestosità. Presto all’opera, non è bene indulgere: o forse sì, ché della genuina meditazione non ha mai fatto male a nessuno. Avvolge le membra in un abito, anzi, quell’abito. Elegante nella sua semplicità, ma sempre il medesimo: poco importa se lo si è potuto lustrare a dovere, o è ancora sgualcito da ieri. Segue una colazione frugale, e via di buona lena nella natura per l’abituale passeggiata abbondante, a scrollarsi di dosso gli ultimi residui di torpore intellettuale. Quell’orario, e quel tragitto, lo dispensano dal clamore stridulo delle strade in fermento, e dal frastornante cicaleccio delle masse di uomini informi…
Queste parole potrebbero ricordarvi l’estratto da una biografia con qualche velleità lirica di troppo, o l’esordio di un romanzo o di un racconto. Senonché quanto avete letto riflette in buona misura la quotidianità di molte menti geniali. Uomini e donne effervescenti che col loro estro insaziabile ed il loro temperamento indomito ci hanno donato tutto ciò che si possa definire bello. Anime elette che hanno sublimato il pungolo scarnificante del travaglio interiore nella linfa vitale con cui hanno lasciato un segno indelebile nell’immaginario collettivo ed impresso una svolta decisiva alla storia. Una storia che la massa si compiace di subire passivamente, additando con scherno chiunque non si lasci trascinare dal flusso degli eventi e non si omologhi alla cultura dominante. Un carezzevole quieto vivere che la condanna alla mediocrità ed all’oblio.
Affrontare questa tematica con rigoroso approccio scientifico risulterebbe vano e tedioso. Vano, perché finiremmo avviluppati in un intricato groviglio di analisi psicometriche e indagini socio-antropologiche calcolose, peraltro con conclusioni discordanti o evidenze non statisticamente soddisfacenti. Tedioso, poiché l’algida ragione dissiperebbe l’alone magico che avvolge la psiche umana, snaturandola da caleidoscopio a lente d’ingrandimento. Ciononostante, avventuriamoci in alcune considerazioni suggestive.
Sulla motivazione per cui è raro che ci si imbatta in geni temperanti è presto detto. L’eccentrica sregolatezza alimenta una forma mentis creativa e visionaria, scardinandola dai dogmi asfissianti che le impedirebbero di fiorire rigogliosamente; specularmente, una metodica rituale è per certi versi il rigurgito parossistico dell’attitudine all’analisi meticolosa ed alla disciplina, necessarie per eccellere. Difatti la prima “dote” si riscontra spesso negli artisti, mentre la seconda in scienziati ed alcune categorie di filosofi.
Dire che il filosofo Giordano Bruno (primo a sinistra) fosse uno spirito ribelle è un eufemismo. Sanguigno e burbanzoso, non aveva peli sulla lingua quando si trattava di denunciare le nefandezze interne alla Chiesa o smascherare i finti sapienti. Finendo per essere puntualmente sbattuto fuori da ogni istituto e, come ricorderete, arso vivo. L’artista spagnolo Salvador Dalí (al centro) era animato da una stravaganza traboccante e dal gusto per il lusso più sfrenato: nel 1926 venne espulso dall’accademia delle belle arti dove studiava poiché dichiarò a gran voce, durante un esame, che nessuno dei presenti fosse all’altezza di giudicare un genio del suo calibro. Il rifiuto dell’autorità fu un tratto presente in tutta la vita dello scienziato Albert Einstein, noto ai più per aver rivoluzionato il mondo della fisica e meno per il suo spirito anticonformista ed insofferente alle regole. All’età di diciotto anni si spinse a rinunciare formalmente alla cittadinanza per non dover sostenere la leva militare, e durante la sua carriera accademica entrò spesso in conflitto coi suoi docenti (mentre la storiella che lo vede come negato in matematica è del tutto infondata!).
Il pianista tedesco Beethoven, uno dei più influenti e celebri compositori di tutti i tempi, non riusciva a rinunciare ad una tazza di caffè preparata rigorosamente con 60 chicchi freschi. Si narra che li contasse uno ad uno con scrupolo cerimoniale, persuaso che un’altra quantità avrebbe alterato l’effetto del caffè sulle sue facoltà cognitive. Charles Darwin, legato alla teoria dell’evoluzione delle specie, era solito fare colazione sempre allo stesso modo ed alla stessa ora, per dedicarsi poi ad una passeggiata col suo fedele bastone, sempre lungo lo stesso tragitto e con le solite tempistiche. L’inventore Nikola Tesla fu più di ogni altro sospeso tra azioni scandite da schemi matematici ben definiti e vezzi irrazionali. Stacanovista infaticabile, lavorava venti ore al giorno. Era ossessionato dal numero tre: lavava le mani tre volte di fila e percorreva il perimetro degli edifici tre volte prima di entrarvi.
Il sonno della ragione genera mostri, come insegna il pittore Francisco Goya, ma alle volte sono i mostri che generano la “ragione” (rigorosamente virgolettato). I capolavori del gotico, dell’horror e della fantascienza non avrebbero visto la luce se i loro autori non fossero stati lacerati in vita da sofferenze fisiche ed angosce esistenziali, trasposte mirabilmente in prosa o in versi.
Lo scrittore irlandese Bram Stoker (primo a sinistra) fu del tutto incapace di muoversi fino all’età di 8 anni a causa di una malattia non ben identificata. Guarì come per miracolo, ma quel tormento plasmò indelebilmente la sua fantasia immaginifica: il sonno straziato da incubi terrificanti e senza fine e la “resurrezione” sono infatti temi centrali nel suo capolavoro, Dracula. Edgar Allan Poe, iniziatore del racconto poliziesco, della letteratura dell’orrore e del giallo psicologico, lottò con l’abuso di alcolici e di sostanze stupefacenti e coi suoi accesi squilibri nervosi. Probabilmente frutti dei suoi infelici trascorsi familiari: venne abbandonato dal padre da bambino e sua madre morì giovane per una feroce tubercolosi polmonare. Non molto diversa la storia di H.P Lovecraft, che all’età di tre anni assistette impotente a delle manifestazioni psicotiche aggressive da parte del padre, fino alla morte sopraggiunta per paralisi progressiva dovuta alla sifilide.
Il genio reca non di rado il fardello di una malcelata misantropia, insieme alla tendenza all’introspezione ed al rifuggire il frastuono delle occasioni mondane. Che tra questi elementi intercorra una relazione di causa-effetto o una meno evocativa concomitanza statistica (a scanso di riduzionismi), ciò che è certo è che investire più tempo ed energie con se stessi consente di penetrare più profondamente l’essenza autentica del reale e di far emergere la propria individualità senza le restrizioni delle convenzioni sociali. Una visione del mondo disillusa e spietata e la tiepidezza nei rapporti umani completano il quadro come naturale corollario di una reale o presunta superiorità intellettuale.
Arthur Schopenhauer potrebbe essere definito il misantropo per antonomasia. Profondo e sagace quanto schivo e sussiegoso, a tratti persino maligno (ma aveva anche dei difetti). Elaborò una dottrina filosofica segnatamente pessimistica ed elitaria, punto di riferimento ineludibile per tutti i pensatori coevi e successivi. Giacomo Leopardi affiancava ad una visione del mondo affine una tensione al sensismo ed al vitalismo, che rimase tuttavia del tutto inespressa nella sua vita reale. E che dire di Emil Cioran, che nelle sue opere venate di amarezza e nichilismo dichiara in più occasioni che la scrittura è l’unica attività che lo dissuade dal suicidio e che “siamo tutti in fondo ad un inferno, dove ogni attimo è un miracolo”.
Un’altra abitudine che ricorre con frequenza sospetta nelle personalità brillanti è quella delle interminabili passeggiate contemplative. Lasciamo che il lettore scelga l’interpretazione più congeniale al suo sentire: quella romantica, che vede nella passeggiata un atto di ricongiungimento con la natura, conciliante la meditazione, o quella più scientifica, che spiega come il moto promuove la plasticità neuronale con la secrezione di fattori neurotrofici.
Il filosofo e pedagogo greco Aristotele era solito camminare senza posa mentre impartiva le sue lezioni agli allievi. Non solo, il nome dell’istituzione scolastica da lui fondata, il “Peripato”, significa appunto “la passeggiata”. Friedrich Nietzsche, senza tema di smentita una delle menti più brillanti, feconde ed audaci di tutti i tempi (ed alla quale dedicheremo un articolo a sé stante), destinava svariate ore al giorno alle passeggiate nella natura. Quando la follia iniziò a dilaniarlo lentamente, pretendeva che la sorella Elizabeth lo sostenesse in questo suo rituale, confidandole che il camminare rimaneva uno dei pochi atti in grado di mantenerlo lucido e sereno. Amava immergersi in scenari idilliaci anche Martin Heidegger, alla ricerca dell’ispirazione e della quiete interiore nella sua isolata baita di montagna presso la Foresta Nera (Germania).
Ho conseguito la maturità classica nel 2015, la laurea di primo livello in Ingegneria Chimica presso il Politecnico di Milano nel 2019 e la laurea magistrale nel 2021 in Chemical Product Engineering con particolare enfasi per i bioprocessi industriali e le tecnologie di formulazione farmaceutica e cosmetica. Traggo la mia linfa vitale da interessi poliedrici, tra cui la filosofia e l’antropologia, e da una inclinazione naturale alla speculazione teorica al servizio di risvolti concreti nella quotidianità.