Arbëreshë: il popolo nato dalla migrazione albanese
10 min readContrariamente a quanto si possa pensare, l’emigrazione albanese verso la penisola italiana non è un fenomeno recente, ma trova le proprie origini in un periodo antecedente diversi secoli la grande migrazione (più famosa) avvenuta dopo la caduta del regime comunista.
In un certo senso, il legame tra l’Italia, prima e dopo l’unificazione del Paese, e la terra oltre il mare Adriatico è stato sempre molto forte, e ancora oggi sussiste nel tempo. Come hanno scritto Arshi ed Elda Rucaj:
Tra i legami che l’Albania ha con il mondo, quelli con l’Italia hanno e avranno un valore particolare perché su tanti fattori come quelli storici, geografici, ambientali, economici, culturali e umani non abbiamo così tanti punti di coesione rispetto ad altri paesi europei.
Arshi Rucaj – Elda Rucaj
Proprio per tale legame, in Italia si è venuto a formare un caso estremamente interessante di “ibridazione”, nato dall’influenza che gli autoctoni hanno avuto sugli antichi abitanti della “Shqiperia” (letteralmente “Terra delle aquile” in albanese), che ha dato origine alla formazione della popolazione Arbëreshë (ovvero gli albanesi d’Italia).
Purtroppo, le notizie che sono pervenute fino a noi non sono molto estese e presentano parecchie imprecisioni, questo perché, come lo stesso D. Zangari ha criticato, molti autori arbëreshë raccolgono dati incompleti o del tutto falsi, rendendo arduo una più precisa analisi.
Innanzitutto, la migrazione albanese in Italia è un processo che si è diviso in più fasi, alternate l’una dall’altra da lunghe sezioni di pausa. Non troviamo perciò uno spostamento costante, ma estremamente altalenante.
Per praticità possiamo dividere la migrazione albanese in tre fasi distinte:
- Quella antecedente la morte di Scanderberg
- Quella posteriore la morte di Scanderberg
- Quella successiva alla crisi verificatasi in Albania dopo la caduta del regime comunista
Il primo “esodo” che coinvolse gli albanesi avvenne tra il 1444 e il 1448 d.C. Esodo composto in gran parte, se non tutta, da un’emigrazione militare guidata da Demetrio Reres, chiamato a sedare una rivolta nel napoletano da Alfonso I e nominato successivamente governatore della Calabria inferiore. Soffocata la rivolta, il re offrì terre e possedimenti in Calabria al comandante e ai suoi uomini, sia per prevenire altre rivolte, sia per popolare terre incolte e deserte presenti nei suoi possedimenti.
Successivamente, la seconda grande migrazione avvenne per gli stretti legami che vennero a formarsi tra il principe Giorgio Castriota detto “Scanderberg” (che in turco vuol dire letteralmente “Alessandro il Signore”) e il Regno di Napoli. Come anni prima per Reves, anche il Castriota inviò nel regno del sud Italia, al servizio di Ferdinando I d’Aragona figlio di Alfonso I, un consistente reparto militare, questa volta, però, per combattere contro gli angioini.
Dopo la sconfitta dei francesi, ai soldati di Scanderberg vennero donate terre e possedimenti, che, successivamente, si riveleranno molto utili per l’ubicazione dei migranti dei periodi posteriori.
In seguito alla morte del patriota albanese, avvenuta nel 1468, l’Albania cadde sotto il dominio della “Grande porta”, che avviò immediatamente un forte processo di islamizzazione della società. Coloro che non vollero sottostare alla dominazione ottomana decisero di emigrare e di spostarsi nei territori del sud Italia e in quelli della Serenissima Repubblica di Venezia.
Per un lungo periodo di tempo, alternando forti flussi migratori a pause, gli albanesi si spostarono nella penisola italiana, fondando sempre maggiori comunità e non senza trovare ostilità, anche molto forte, da parte degli autoctoni.
L’ultima grande migrazione avvenne tra il 1759 e il 1825 sotto la guida, anche questa volta, di un condottiero militare, Panagiotti Caclamani. Da questa fase si passa successivamente alla terza, che avverrà solo dopo la dissoluzione della dittatura di Enver Hoxah.
Ciononostante, mentre le prime due grandi ondate migratorie non furono attraversate da eccessivi problemi, le migrazioni successive cominciarono a suscitare alcune difficoltà tra i nuovi arrivati e i precedenti residenti, che iniziarono a non vedere di buon occhio le popolazioni albanesi. Basti considerare che perfino al figlio di Scanderberg venne impedito, in un primo momento, di sbarcare in Sicilia con il suo seguito.
I principali punti di scontro che si vennero a creare furono causati dalla cultura degli albanesi, dalle loro abitudini e dal loro stile di vita, che mal si sposavano con le concezioni degli abitanti del regno napoletano. Difatti, gli albanesi rimasero attaccati alle loro tradizioni di combattenti continuando a far uso delle armi, non disdegnando di commettere scorrerie anche nel regno, creando spesso disordini e attuando veri e propri saccheggi.
In particolare, un problema estremamente delicato fu il rispetto da parte degli albanesi del “Kanun” (dal greco Kanon, che vuol dire “regola”), un codice penale e civile in uso in Albania fino al 1912, presente ancora oggi in alcune comunità montuose. Il Kanun fu ideato nel XV secolo da Lek Dukagjini (alleato di Scanderbeg) che ne curò anche la prima versione scritta. Consiste in un codice di 12 libri, 159 articoli e più di 1.000 commi, in cui vengono specificati i dettami di ogni aspetto della vita, concentrandosi in particolar modo su due argomenti: l’ospitalità e la vendetta. Quest’ultimo in particolare, insieme al concetto di “sangue chiama sangue”, ha generato parecchie difficoltà all’istituzionalizzazione gli albanesi, che si sono dimostrati estremamente restii a sostituire il loro codice (il quale possedeva, e in un certo senso possiede ancora, un fortissimo alone mistico-religioso) con le leggi o i costumi locali, quando questi fossero entrati in contrasto con il codice.
Inoltre, un altro ostacolo era la confessione religiosa degli albanesi. Infatti, i nuovi arrivati erano di rito greco-ortodosso, e la stessa Santa Sede si occupò più volte di ridiscutere e organizzare l’espressione di fede degli albanesi nel territorio del sud Italia, non gradendo la presenza di un così consistente numero di persone facenti capo a Costantinopoli anziché a Roma.
Si decise, per tutti questi problemi sorti dalla convivenza, che le colonie affidate agli albanesi fossero spesso in territori impervi o poveri, lontano dagli altri centri abitati, così da evitare che potessero perpetrare le loro abitudini criminali nelle altre zone del regno. Si tentò, in poche parole, di tenere lontano dal resto degli abitanti i nuovi arrivati, così che si creassero un mondo a parte lontano da tutto il resto.
Gli albanesi si ritrovarono soli e non accetti in una terra lontano da casa (il mito della “patria perduta” rimarrà per sempre presente nelle comunità arbëreshë) e a contatto con un popolo che non li voleva, e tantomeno voleva farli integrare, né li considerava come pari. La conseguenza logica fu che gli albanesi, sia per sopravvivere, sia per perpetuare le loro tradizioni, si legassero moltissimo alle loro piccole comunità, dove si formarono delle grandi famiglie in cui ogni membro spalleggiava per l’altro.
Ma, se da una parte l’isolamento fu molto forte, dall’altra, ovviamente, non poté essere totale, e un flusso di scambi tra albanesi e italiani si andò a intensificare nel tempo. Sia perché gli arbëreshë dovettero per forza entrare in contatto con le popolazioni locali, sia perché, col passare degli anni, questa ostilità reciproca tra i due popoli venne meno, o meglio, si affievolì, e sempre più albanesi parteciparono alla vita attiva e politica del paese (basti pensare ad episodi come quello del 1848 o della spedizione dei Mille). Inoltre, non va assolutamente dimenticato (come il caso sopra riportato della latinizzazione in ambito religioso) che molte furono le imposizioni statali promosse sul popolo arbëreshë per farlo adattare al loro nuovo contesto.
Questo contatto con un popolo diverso (contatto, ribadiamo, di diversi secoli) non poteva non lasciare traccia nella cultura albanese, trasformandola in quella che noi definiamo arbëreshë. Infatti, nei tratti basilari che possiamo considerare espressione di un “popolo” (lingua, cultura, religione ecc.) non troviamo elementi che non siano stati alterati.
L’influenza italiana sul popolo albanese si può scorgere sia in molte tradizioni popolari e folkloristiche, sia nella morfologia della loro lingua (chiamata “Arberisht”), che nel tempo ha subito molte modifiche dal miscuglio con i dialetti delle popolazioni del sud Italia.
Oggi, nonostante la lingua sia diventata ufficialmente patrimonio e sia tutelata dallo Stato con la legge-quadro n. 482 del 15 dicembre 1999, stia finendo in disuso, alimentata ancora dalle piccole comunità (specialmente dagli anziani) ma diffusa molto anche tra i giovani che, sfortunatamente, spesso sono capaci solo di usarla oralmente, senza avere la capacità di scrivere.
Ma in ogni ambito della vita arbëreshë e delle loro tradizioni possiamo trovare elementi esterni alla loro cultura originaria. Basti osservare che, nonostante il rito ortodosso sia in disuso, i riti latini da loro utilizzati non siano da considerare “puri”, ma siano caratterizzati da elementi orientali estranei alla chiesa di Roma.
Ma non solo, spesso, anziché accettare elementi esterni, gli albanesi fecero propri alcune tradizioni italiane, trasformandole nel tempo in qualcosa di loro. Un perfetto esempio è la “carrese” (corsa coi carri) che è una delle più antiche tradizioni delle comunità arbëreshë del Molise, che però ha origini latine legate al mondo contadino, appresa dagli albanesi nel momento dello sbarcarono sulle coste italiane.
Perciò, nonostante gli albanesi riuscirono a chiudersi (o meglio furono costretti) in piccole comunità molto coese, non furono di certo esenti da forti influenze esterne. Influenze che hanno fatto sì che gli arbëreshë non siano semplicemente albanesi immigrati in Italia, ma un popolo nato dalla resistenza e da un forte connotato culturale, e al tempo stesso da una necessità di contatto e di scambio. Naturalmente si è trattato di un processo continuo e piuttosto lungo, ma che non fu arrestabile da entrambe le parti. Processo che ha scavato un solco molto profondo tra quelli che noi oggi consideriamo albanesi e quelli che invece adesso sono albanesi-italiani.
Il maggiore punto di forza, quando si evince il fatto che gli arbëreshë non siano in realtà degli “albanesi” nel senso moderno del termine, risiede nel confronto e nel rapporto che si venne a creare tra questi due popoli quando entrarono in contatto. Tra l’ultima grande migrazione prima della caduta del regime di Hoxa e quella successiva al crollo della dittatura comunista vi è un arco temporale di più di un secolo, senza contare che le prime comunità, però, risalgono a più di cinque secoli prima.
In tutto questo periodo, gli arbëreshë si sono formati tramandando tradizioni che nella loro terra natia sono andate perdute da generazioni, sia a causa della dominazione ottomana, sia per la rivoluzione culturale attuata negli anni del regime dittatoriale.
Le differenze tra gli arbëreshë e gli albanesi sono riscontrabili in quasi tutti gli aspetti culturali e politici della loro vita. Prima fra tutti il fattore della lingua.
Bisogna sottolineare che i primi non parlano albanese, né sono capaci di capire quello moderno se non per sporadici termini. L’arberisht è una lingua che deriva dalla lingua Tosca (toske), utilizzata nel sud dell’Albania, e dal Ghego, che invece era un dialetto del nord. Come già sottolineato, questo idioma si è poi mischiato ai moltissimi dialetti locali delle varie popolazioni con cui gli albanesi entrarono in contatto, frammentandosi anche in varianti diverse (ci sono, più o meno, tanti dialetti arberisht quanti sono quelli del sud Italia). L’albanese invece ha subito moltissime influenze dalla lingua ottomana e da altri popoli della penisola balcanica, strutturandosi in modo differente. Messi a confronto, l’arberisht e l’albanese hanno meno della metà dei termini in comune, più o meno il 45%, il che rende palese come sia difficile una comunicazione tra queste due realtà linguistiche.
Altro fattore di differenze risiede nella religione e nella tradizione popolare. Mentre gli arbëreshë, nonostante la forte spinta alla latinizzazione da parte delle istituzioni italiane, hanno mantenuto sempre una forma religiosa cristiana ortodossa, l’Albania ha subito un destino decisamente diverso.
Con la dominazione ottomana iniziò quello che si può definire come un’islamizzazione forzata del territorio albanese. Non fu una conversione vera e propria del popolo albanese, ma una passiva accettazione dell’imposizione che avveniva dall’alto, e dei privilegi che essa comportava. Col tempo, ovviamente, l’islam venne favorito e continuò a circolare, diventando la religione più diffusa sul suolo albanese. Dall’altra parte, durante il periodo della dittatura di Enver Hoxa, il comunismo cercò di conferire un ordinamento prettamente ateo e distante da qualsiasi schieramento religioso.
Gli arbëreshë, invece, nonostante tutte le pressioni, non decisero mai di abbandonare la loro religione, accettando (volenti o nolenti) delle forti influenze, ma conservando alcune caratteristiche fondamentali.
Perciò quando gli albanesi-italiani si trovarono a confronto con i loro “fratelli di sangue” provenienti dalla loro terra natia, non solo non riuscirono a trovare similitudini culturali o religiose, ma nemmeno riuscirono a comunicare.
Nonostante questo, i nuovi profughi hanno trovato nelle comunità sul territorio un luogo sicuro dove poter ricevere aiuti e appoggi. Gli albanesi italiani si dimostrarono ben disposti verso entrambe le proprie anime mettendosi in mezzo alla lite politica e sociale che andava creandosi.
Essi sono e saranno per sempre un popolo nato dalla migrazione, dal miscuglio e dall’unione, dalla resistenza e dal desiderio di essere accettati ma non inglobati in una terra che considerano oramai come la loro casa, convivendo con un popolo che però non è del loro stesso sangue.
Per saperne di più:
- Barjaba K. – Perrone L., “Forme e grado di adattamento dei migranti di cultura albanese in Europa”, in “Naufraghi Albanesi. Studi, ricerche e riflessioni sull’Albania”, Sensibili alle Foglie, Roma, 1997.
- Duikagjni L., “Kanun”, a cura di Donato Martucci, Besa, Nardò, 2013.
- Dell’erba N., “Storia dell’Albania”, il Sapere, 1997.
- Micuno G., “Albania nella storia: breve storia dell’Albania”, Besa, Lecce, 1995.
- Morelli T., “Cenni storici sulla venuta degli albanesi nel Regno delle due Sicilie”, Napoli, Stabilimento Guttemberg, 1842.
- Rucaj A. – Rucaj E., “Shqiptaret ne Itali” / “Gli albanesi in Italia”, Emal, 2009.
Sono un giovane sociologo determinato, motivato e appassionato. Possiedo una Laurea Triennale in Scienze Politiche, una Laurea Magistrale Biennale in Sociologia e Ricerca Sociale e sono attualmente iscritto all’Associazione Sociologi Italiani. Mi occupo principalmente di ricerca e analisi sociale, consulenza e scrittura. Sono madrelingua italiano, parlo inglese a un discreto livello, e comprendo anche lo spagnolo e il francese. I miei passatempi preferiti sono la lettura e il kendo.