Come si crea la paura. L’esperimento del Piccolo Albert
5 min readProbabilmente tutti noi conosciamo o abbiamo avuto a che fare almeno una volta nella vita con individui che, di fronte ad un determinato stimolo, vengono assaliti da una paura incontrollabile e apparentemente insensata. Che si tratti di un animale, una situazione esterna, un luogo o una condizione corporea, esistono individui che, alla vista o anche solo al pensiero di tali stimoli, sentono innescarsi dentro di sé quella che viene scientificamente definita una “fobia specifica”. Le fobie specifiche sono innumerevoli e toccano qualsiasi ambito, dalla comunissima paura dei ragni (aracnofobia) a quella di ritrovarsi in spazi chiusi e troppo stretti (claustrofobia) fino alla paura di dover pronunciare o sentire parole troppo lunghe (sesquipedalofobia).
Dal punto di vista prettamente biologico, la paura non é altro che una “abilità innata” che ha una funzione adattiva, poiché ci permette di reagire di fronte a situazioni di potenziale pericolo. Quindi non c’é nulla di sbagliato nel provare una certa dose di ansia di fronte a qualcosa di sconosciuto e che potrebbe danneggiarci in qualche modo. Vi é inoltre una componente genetica che fa in modo che un essere vivente, sin dalla nascita, riconosca la pericolosità di certi stimoli senza mai averne fatto esperienza, diretta o vicaria che sia. Ovviamente tale esperienza arriverà in seguito, nel corso della vita, contribuendo a rinforzare e consolidare la paura “innata”. È questo il caso degli animali che, non trovandosi in cima alla catena alimentare, sono consapevoli di essere delle prede e si comportano come tali: ad esempio, perché un topo appena nato dovrebbe avere naturalmente paura dei gatti? Non avendo mai assistito all’aggressione di un suo simile da parte di un gatto, ci si aspetterebbe che lo stimolo “gatto” non gli susciti nulla. E invece no! Perché l’informazione “i gatti sono pericolosi” gli é stata trasmessa geneticamente grazie all’esperienza di generazioni e generazioni di topi vissuti prima di lui. Ma i processi di questo tipo riguardano uno specifico ambito chiamato epigenetica, che sicuramente avremo modo di approfondire in qualche altro articolo. Questa piccola digressione serviva a dare una breve spiegazione scientifica di come si originano sensazioni come la paura.
Il problema sorge quando questa predisposizione naturale e funzionale sfocia nel patologico e costituisce un serio problema nella nostra quotidianità. Come avrete potuto intuire, si puó persino arrivare a provare paura e ansia di fronte a stimoli che non costituiscono un pericolo “naturale” per noi. Questo avviene perché, come ogni processo mentale, la paura non é solo genetica, ma si puó apprendere e rinforzare tramite l’interazione con l’ambiente esterno, specialmente se questa interazione avviene in tenera età, quando l’individuo non é in grado di contestualizzare ed elaborare razionalmente le informazioni che gli arrivano, le situazioni in cui si trova e gli stimoli con cui interagisce; per cui avrà paura in modo generalizzato e indiscriminato di tutte le cose che gli ricordano o che la sua mente associa allo stimolo che inizialmente ha innescato la sua paura.
Per fornire un’idea più chiara di quanto detto poc’anzi, sarebbe il caso di raccontare un caso emblematico, un esperimento che é rimasto indelebile nelle pagine della storia della psicologia. L’esperimento in questione fu condotto nel 1920 da John Watson, uno dei padri fondatori del Comportamentismo. La cavia su cui fu condotto lo studio era un bambino di circa un anno, che oggi tutti ricordano con lo pseudonimo di “Little Albert”. Stiamo parlando di uno studio fatto esattamente 100 anni fa, quando non esisteva ancora un codice deontologico rigido e ben definito che impedisse la messa in atto di pratiche eticamente discutibili come questa. Infatti il piccolo Albert venne intenzionalmente traumatizzato al fine di dimostrare come la paura venga originata dai condizionamenti ambientali.
Come potete vedere nel video allegato (che speriamo non abbia urtato eccessivamente la vostra sensibilità), il piccolo Albert viene spinto ad interagire con una serie di animali (una scimmietta, un cane, un coniglio…) e anche con diversi oggetti inanimati. Inizialmente il bambino non é minimamente turbato dalla presenza degli animali, per i quali mostra invece una certa curiosità. Ad un certo punto dell’esperimento, mentre Albert si trova a giocare con un topolino bianco, gli sperimentatori generano un rumore improvviso e disturbante, che innesca nel bambino una ovvia reazione di paura e pianto. Questo procedimento viene ripetuto diverse volte in presenza di altri stimoli simili al topo. Questa serie di condizionamenti porta il bambino a provare terrore anche in presenza di altri animali pelosi e oggetti di colore bianco. Questo avviene perché la giovane mente di Albert ha appena attuato una generalizzazione della paura. Infine la giovane cavia, avendo strettamente associato la presenza del topo (e di tutti gli stimoli dall’aspetto riconducibile a quest’ultimo) con l’inizio del rumore assordante (cioé l’unico vero stimolo ansiogeno), arriva fino al punto di provare terrore per gli stimoli sopracitati anche se la loro presenza non è più accompagnata da nessun rumore.
Questo esperimento, per quanto scandaloso e immorale, ci dimostra come le fobie, in molti casi, possano essere frutto di condizionamenti ricevuti in età infantile. Quando si é bambini, lo ricordiamo ancora una volta, lo sviluppo incompleto del cervello (come anche di tutto il resto del corpo) rende gli individui estremamente propensi alle associazioni e alla generalizzazione degli stimoli. Per questo motivo é praticamente impossibile trovare una persona che non abbia mai avuto traumi o condizionamenti. Fortunatamente l’arrivo dell’età adulta, con il conseguente perfezionamento delle nostre risorse cognitive, ci rende capaci di ripescare dal passato alcuni nostri condizionamenti (ammesso che non siano stati mascherati dai nostri meccanismi di difesa, di cui peró parleremo in un’altra occasione) per rielaborarli, razionalizzarli e persino estinguerli. Qualora questa abilità non dovesse risultare sufficientemente efficace, si puó sempre ricorrere a diversi tipi di psicoterapia (psicoanalitica, cognitiva, terapia di gruppo, EMDR e molte altre) o a tecniche come la desensibilizzazione sistematica, che consiste appunto nel desensibilizzare il paziente affetto da fobia esponendolo allo stimolo ansiogeno in modo progressivo e graduale: si comincia con gli stimoli più soft fino a quelli più concreti e difficili da sopportare. Prendiamo come esempio un paziente aracnofobico che prova ansia solo sentendo la parola “ragno”. Questa parola potrebbe essere ripetuta a voce tante volte davanti al paziente, finché quest’ultimo non sviluppa una certa tolleranza allo stimolo. Quando la reazione di ansia viene completamente estinta, si procede mostrando al paziente una foto raffigurante un ragno. Quando anche questa non suscita più alcuna reazione negativa, gli si fa vedere una teca contenente un piccolo ragno, poi un ragno più grosso, poi un video in cui una persona tiene un ragno enorme sulla mano e via discorrendo. La terapia si conclude quando il paziente, di fronte alle esposizioni più “strong” non mostra più alcun sintomo riconducibile all’ansia, per cui si suppone che abbia smesso di provarla.
Laureato in psicologia cognitiva, sto tuttora portando avanti la mia formazione. Sono inoltre appassionato e attirato dall’arte (musicale e cinematografica in primis), dall’attualità e da tutto ciò che riguarda l’essere umano e il suo modo di interfacciarsi con se stesso e il mondo. Credo molto nel potere che la conoscenza può conferirci nel momento in cui smette di essere considerata qualcosa di fine a se stesso, ma viene anzi trasmessa in modo costruttivo tra le persone.