Comunità Islamica in Italia: Intervista all’Imam Pallavicini
16 min readYahyā Sergio Yahe Pallavicini
Abbiamo avuto l’onore di rivolgere un’intervista a Yahyā Sergio Yahe Pallavicini, vicepresidente della Comunità Religiosa Islamica (CO.RE.IS.) Italiana e imam della moschea al-Wāhid di Milano, oltre a rivestire varie altre funzioni di rappresentanza a livello nazionale e internazionale, fra cui la sua partecipazione al consiglio di amministrazione del Centro islamico culturale d’Italia (afferente alla moschea di Roma) e al Consiglio superiore per l’educazione in Occidente (afferente all’Organizzazione islamica per l’educazione, la scienza e la cultura, ISESCO).
L’imam Pallavicini ha risposto con minuzia di pensiero alle nostre domande le quali hanno riguardato il non semplice rapporto fra le comunità islamiche (presenti sul territorio italiano) e il contesto politico e sociale italiano fino a confluire su più ampie riflessioni riguardanti il binomio religione-scienza e descrivendo, infine, la sua missione di vita in veste di alto rappresentante dei musulmani d’Italia.
Che tipo di intesa giuridica vige in questo momento storico fra lo Stato italiano e la CO.RE.IS (Comunità Religiosa Islamica) Italiana? Quali sono le mancanze da colmare e quali sviluppi spera possano realizzarsi nel breve periodo?
«Va detto che un’intesa giuridica fra la confessione islamica, nel senso più ampio del termine, e lo Stato italiano attualmente non esiste. E non è neanche partita. Per il semplice fatto che il requisito per poter aprire un tavolo per le intese è il riconoscimento giuridico di uno o più interlocutori. In questo contesto, l’unico ente ufficialmente riconosciuto allo stato attuale è da anni la moschea di Roma che, però, ha un problema tecnico e giuridico in corso di chiarimento.
Il secondo ente che è in procinto di ottenere un riconoscimento giuridico è proprio la CO.RE.IS., che ha ottenuto il parere favorevole del Ministero dell’Interno e del Consiglio di Stato e la cui pratica è attualmente alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per un’approvazione di carattere politico. Se questa approvazione verrà fatta, come da prassi, il Presidente della Repubblica firmerà il decreto per il riconoscimento giuridico.
Manca una volontà politica da decenni perché non c’è una cultura obiettiva, oggettiva, costruttiva nei confronti dei musulmani. Nel corso degli anni sono sempre emersi degli alibi per non affrontare mai un dialogo serio con qualsiasi rappresentanza islamica. Molti politici risponderebbero dicendo che ‘è colpa dei musulmani che, non avendo una chiesa e non avendo un papa, non sono unitari nella loro rappresentanza’. Ma questa, in realtà, è una risposta furba e non sincera perché buddisti e protestanti hanno diverse rappresentanze e hanno firmato diverse intese con lo Stato Italiano e con il governo di turno. Quindi, le possibilità sono: o di fare, come per la Chiesa cattolica o come per gli indù, un’unica intesa con un unico ente riconosciuto; oppure di riconoscere che ci sono realtà, per esempio l’Islam, dove non c’è un consenso sulle varie interpretazioni o sensibilità di rappresentanza. E, in quest’ultimo caso, si potrebbero avviare diversi percorsi di intesa con diversi interlocutori affidabili, seri e riconosciuti. Invece, si utilizza questo tecnicismo della mancanza di una unità rappresentativa per non dire ‘dietro questo problema tecnico c’è il problema che i musulmani sono tanti, non sono autorevoli, sono una minaccia per la sicurezza nazionale, sono stranieri e vogliono cambiare i costumi della società italiana, sono un pericolo perché sono degli infiltrati jihadisti di qualche paese o di qualche movimento straniero’…
Però, per me, le differenze non possono essere più la scusa per non affrontare le esigenze dei diritti e della dignità di culto dei musulmani che ormai sono più di due milioni in Italia. C’è anche una questione quantitativa che, se non si affronta seriamente, farà emergere sempre quei fatti di cronaca che confonderanno sempre il buon credente con il cattivo criminale. C’è sempre questo pregiudizio, comparabile ad altri stereotipi del tipo ‘tutti gli italiani sono mafiosi e tutti i musulmani jihadisti’. Invece, se posso permettermi, penso esattamente il contrario: ci sono criminali che sono jihadisti o che sono mafiosi.. ma ciò non ha nulla a che fare con l’identità né nazionale né culturale né religiosa.»
Ritiene che le stratificazioni interne alla vasta comunità islamica residente in Italia (si intende fra musulmani italiani, musulmani con cittadinanza straniera, musulmani di prima e seconda generazione, neo-convertiti..) siano un fattore di destabilizzazione? Che rapporti sussistono fra questi gruppi? È possibile per loro sentirsi parte di una umma nel contesto italiano?
«Ciò che rende difficile il dialogo, soprattutto per la CO.RE.IS., è il prevalere di un approccio sociologico nei confronti dei musulmani. Nei confronti degli ebrei, ad esempio, si parte dalla Shoah o dall’olocausto e, di conseguenza, ‘dobbiamo dare un po’ di diritti’ agli ebrei perché sono stati oggetto di leggi razziali, di sterminio e di discriminazioni. Questo approccio è sbagliato. Perché il diritto non si basa su una concessione umanitaria. Il diritto alla libertà religiosa è un diritto fondamentale della Costituzione o della giurisprudenza occidentale. Non ha a che fare con ‘se sono immigrati, se sono poveri, se sono ignoranti, se sono di varie razze o di varie culture, se sono prevalentemente maschi o prevalentemente femmine..’. Non c’entra.
Noi come CO.RE.IS. facciamo due cose: una è cercare di chiarire la religiosità dell’Islam. Cioè, mettere in chiaro che cos’è veramente l’identità spirituale, dottrinale, teologica, l’appartenenza di fede, la pratica religiosa.. senza confonderla con usi e costumi che possono essere tipici delle periferie o dei ‘quartieri alti’ di qualsiasi paese straniero. Si tratta di ritrovare l’universalità di un’identità religiosa o di una pratica religiosa specifica all’Islam che possa essere rispettata secondo l’ordinamento giuridico dello Stato Italiano.
Se confondiamo l’incontro tra il contesto storico, culturale, giuridico e politico italiano e l’identità religiosa islamica.. e lo contaminiamo con tutto un buonismo o una discriminazione nei confronti di una cultura straniera o di un’ideologia fanatica o di un maschilismo delle periferie di non so quale paese, ad esempio il Pakistan.. andiamo a confondere e a complicare le cose. È chiaro che è una sfida forse difficile. Però il nostro approccio è quello di dire ‘la dignità dell’Ebraismo, del Cristianesimo, dell’Induismo e del Buddismo sono state rispettate e riconosciute in quanto dignità religiosa, e il dialogo è stato fatto su come applicare le esigenze di culto nel contesto sociale Italiano. Questo approccio qui dovrebbe essere fatto anche sull’Islam’.
Il fatto che dei due milioni di musulmani forse la metà soltanto è una prima generazione di stranieri è giuridicamente poco rilevante. Perché noi potremmo dire oggi che un milione di musulmani sono italiani. E questo milione deve essere naturalmente tutelato per avere la possibilità di praticare, liberamente e dignitosamente, la propria religione e non la propria cultura straniera in Italia.
Questo è l’approccio che invece manca totalmente. Nessuno può pretendere che lo Stato o il governo diventino dei laureati in teologia. Però, se di tutte le religioni si è riconosciuta una dottrina, cioè un impianto teologico, un asse religioso e spirituale.. per l’Islam, si parla soltanto di problemi di famiglia o di ideologia o di micro o di macro criminalità. E questo è qualche cosa che invece dovrebbe cambiare radicalmente. Anche l’Islam ha una sua dottrina, che è fatta del Corano e degli insegnamenti del Profeta. E il Corano è fonte del diritto islamico, vedasi la sharīʿa. Però, se lei ci pensa, sharīʿa e Corano sono sinonimi nelle cronache di un pregiudizio per cui sharīʿa è, non so, lapidazione.. e Corano è la dottrina dei terroristi. E allora in quel caso lì, veramente è stato fatto un furto ai musulmani della loro dottrina.»
Il contesto italiano presenta certamente caratteristiche sociali e culturali peculiari fra le regioni settentrionali, centrali e meridionali. A questo proposito, pensa che fra il Nord e il Sud Italia vi siano differenze nel modo di guardare all’Islam e nella facilità/difficoltà per un musulmano non italiano di inserirsi nel tessuto sociale locale?
«Ci sono, secondo me, delle sfumature culturali che sono abbastanza rilevanti tra Nord e Sud per i musulmani. Sono un po’ forte.. però direi che nel Nord, dove prevale da parte di imprenditori una cultura del lavoro, i musulmani sono prevalentemente manovalanza.. operai, ecco. E secondo me vengono un po’ sfruttati. Finché fanno comodo perché soddisfano delle esigenze nella filiera produttiva, noi facciamo uso nel Nord di stranieri. E fra questi stranieri persino di alcuni musulmani. Ma, una volta finito l’orario di lavoro, le autorità locali si disinteressano della componente ‘umana’ di questi operai. Che è anche la loro sensibilità religiosa, familiare, di culto e di tradizione interiore.. C’è una freddezza che fa prevalere il culto della produttività imprenditoriale o professionale o lavorativa su tutto il resto. Quindi, nel Nord, l’immigrato serve perché servono operai che soddisfino lavori che non vengono fatti dagli autoctoni. Finito il lavoro, come ho detto, affari loro di come vogliono gestirsi la vita.
Mentre nel Sud, ho l’impressione che ci sia una maggiore ‘umanità’.. una maggiore sensibilità. Il popolo nel Sud dell’Italia ha, forse, direi ancora, un senso naturale della fede e della religione cristiana cattolica e percepisce che il musulmano bengalese o il rifugiato dal Niger è diverso da qualcuno che vive in Puglia o in Campania o in Sicilia. (Il popolo nel Sud) Ha ancora, credo, un’apertura che chiamerei ‘del cuore’. La percezione della differenza non provoca subito un’alienazione o un’indifferenza o uno sfruttamento. Non si tende, credo, a confondere ‘immigrazione dal Nord Africa’ con ‘invasione islamica’. Paradossalmente, questi sono slogan che ho sentito più nel Nord che non nel Sud.»
Vista la larga comunità islamica presente in Italia (approssimativamente 2.7 milioni di persone), che apporto pensa che l’Islam abbia portato nell’ultimo decennio alla società italiana contemporanea? Ha osservato una maniera più aperta di accogliere le religioni (diverse dal cattolicesimo) a livello comunitario?
«Questo sì.. Un elemento che io sottolineerei, che è prevalentemente nell’ambito del dialogo interreligioso, è che il pluralismo religioso a volte ha permesso ai cristiani di poter essere ancora più convinti delle loro posizioni religiose. Mentre, ho l’impressione che, se non ci fosse stato un pluralismo religioso, i cristiani avrebbero interpretato la loro fede in un modo progressivamente sempre più secolarizzato. Quindi, la dottrina sociale della Chiesa sarebbe diventata qualche cosa per il bene comune della società. Ma senza necessariamente fare più riferimento al simbolismo dei riti, alla pregnanza della dottrina, alla centralità di Dio nella vita.. e quindi a una dimensione sacra dell’esistenza. Anche se si vive in tempi moderni o sotto un sistema democratico. Quindi, ho l’impressione che a volte il dialogo interreligioso, il confronto, abbia permesso ai cristiani di essere un po’ più decisi sui valori della loro stessa fede. Oserei dire che questo è anche quello che la CO.RE.IS. cerca di fare: di riuscire a sostenere un’interpretazione della fratellanza con gli ebrei e con i cristiani, facilitato da una comune familiarità in Abramo, nel senso di poter dire ‘siamo occidentali ma siamo credenti, onoriamo i profeti, abbiamo ognuno una dottrina di vita, e anche una serie di simboli e di riti che vanno rispettati per non annacquare tutto in una cultura omologante e priva di riferimenti simbolici più profondi’. Quindi, in quel senso lì, credo che abbiamo cercato di contribuire.»
Albert Einstein sosteneva “La religione senza la scienza è cieca, la scienza senza la religione è zoppa”. Lei crede che nella civiltà occidentale le sfere della scienza e della religione si stiano allontanando troppo? Quali sono, secondo lei, le conseguenze sociologiche più gravi o eclatanti? E quale il rischio in cui si incorre se queste due sfere rimangono troppo ravvicinate?
«Per me è una questione più di prospettiva. Il conflitto tra scienza e religione è un artificio. Il vero conflitto che purtroppo c’è, è tra prospettiva profana e prospettiva tradizionale. Cioè, tra prospettiva di un credente e prospettiva di chi invece vuole negare una dimensione più trascendente nella vita. Ma teologi e scienziati all’interno di una stessa religione o tra diverse religioni hanno sempre utilizzato la teologia, la filosofia e la scienza come differenti discipline utili al servizio di uno sviluppo intellettuale e della civiltà nell’obbedienza, se posso dire, ad una prospettiva sacrale del cosmo e dell’umanità. La scienza, come il diritto islamico, come la teologia, come la filosofia.. fanno parte di enormi e utili possibilità di sviluppo del sapere che sono a sostegno della fede, dei credenti e dei cittadini che vogliono beneficiare di questi strumenti.
Credo che ci sia stata una rottura all’interno della modernità che ha voluto, prima, rompere con la religione e, poi, mettere in competizione una scienza anti-religiosa contro il dogmatismo dei religiosi che rischiavano anche loro di essere un po’ bigotti. Si è creato un artificio nell’artificio. Il primo artificio è creare una rivoluzione anti-tradizionale. Cioè, dove non si rispettasse l’unità o l’universalità dei saperi. E il secondo è di mettere una disciplina contro l’altra: politica contro religione, o religione contro scienza, o teologia contro filosofia.. Non esistevano a suo tempo, finché c’erano maestri illuminati, delle competizioni. C’erano dei dibattiti, dei confronti.. dove però fra saggi delle varie discipline si concorreva insieme per un bene della società e per una crescita veramente intellettuale, illuminata, per i credenti di tutte le religioni.
Nel corso del tempo c’è stata una disgregazione di saperi: la specializzazione dello scienziato che non capisce il linguaggio dell’avvocato, che non capisce il linguaggio dell’ingegnere, che non capisce il linguaggio del teologo.. Non ci capiamo tra di noi e ognuno vanta il primato di un’eccellenza in contrapposizione con l’altro. Questo è il caos. Ma il caos più grande è che di tutte queste discipline ognuna ha perso l’obiettivo. Perché il vero obiettivo è diventato l’autoreferenzialità del campione della scienza che deve dimostrare di avere il primato sul teologo. Oppure, dall’altro lato, il falso teologo che per dimostrare il suo primato sceglie di diventare un militare guerrigliero.
Per farle un esempio, un mio carissimo collega e fratello, altro vice-presidente della CO.RE.IS., è, oso dire, uno scienziato di fama mondiale di origine francese, Abd al-Haqq Ismail Guiderdoni, che è direttore del Centro di astrofisica di Lione in Francia e anche vice-presidente della moschea di Lione. È quindi una persona che si occupa di galassie e di cosmologia. È uno scienziato ‘moderno’. Ma è anche un uomo di fede e la cosa paradossale è che, come tale, è ritenuto un paradosso anche dai suoi colleghi scienziati. E allo stesso tempo è ritenuto un paradosso anche dai suoi colleghi musulmani. Perché quello che si è perso è la possibilità di essere uniti e integri senza essere disgregati. Invece la specializzazione in competizione all’unità ha creato questa incapacità di riconoscere l’universalità nell’uomo o nella donna ‘perché bisogna dimostrare un sapere in alternativa ad un altro’. Ma i saperi sono saperi.. non sono forme da mettere in una classifica statistica.»
Tornando al contesto italiano, lei pensa che il contatto fra la società italiana odierna e l’Islam possa spingere i musulmani della fascia di età più giovane a deviare dai dogmi religiosi o dai valori spirituali e materiali tradizionali? Quali sarebbero dunque, secondo lei, i risvolti negativi, ma anche positivi, di questo contatto?
«Non le nascondo che, anche tra i musulmani in Europa, le spinte verso un certo appiattimento culturale, verso un’attrazione per la modernità, vista in alternativa ad una dimensione sacrale della vita, sono molto forti. Sul fronte opposto, il fondamentalismo attrae molti giovani che, magari, erano molto attratti dalla modernità, dall’Occidente, dal sogno di una vita di benessere, di libertà che l’Europa rappresenta. E che invece, delusi o incapaci di soddisfare questo sogno, adesso vogliono distruggere il sogno uccidendo o distruggendo l’Occidente.
Da un lato, potremmo avere degli assimilati, cioè persone che abdicano le loro radici e la loro fede per diventare individui qualunque secondo uno standard occidentale. Dall’altro lato, coloro che vogliono opporsi allo standard occidentale ma che sono corrotti ideologicamente da una volontà di alternativa che non è illuminata, ma soltanto distruttiva.
La vera sfida, per me, è quella di riuscire ad essere interpreti di un’intelligenza della fede. Riuscire ad interpretare questa sensibilità spirituale nella coerenza ai precetti ma anche nella riflessione sui tempi che viviamo. Ciò deve essere gestito su una base che, insisto, è più intellettuale e non animico-viscerale. Uno degli insegnamenti dei maestri, secondo me, di tutte le religioni è che il rapporto con le cose ma anche con le onde o i tempi, per esempio la modernità, non è qualcosa dove deve prevalere lo stato d’animo. Non è importante, come purtroppo la modernità ci fa credere, come mi sento.. se mi sento felice, se mi sento infelice, se mi sento libero o se mi sento non libero, se mi sento appagato professionalmente o se mi sento insoddisfatto come studente. Queste sono ‘onde’ che sono tipiche di alcune suggestioni della modernità che colpiscono molti giovani, compresi i credenti e compresi i musulmani.
Invece, l’inserimento delle tradizioni religiose è quello di dire ‘sì, è vero che puoi essere felice e infelice, depresso o emozionato.. ma governa questi stati dell’anima con una ricerca di sapienza, con una ricerca di chiarezza intellettuale, con una ricerca di luce’. E questa luce per i credenti, secondo le dottrine, è la luce dello spirito. È la luce dello spirito che pacifica gli stati psichici, o piuttosto li rasserena o li risolve. E questa è la vera chiave della sfida, nonché l’obiettivo della natura umana.
È troppo complicato cercare di coltivare l’intelligenza non per narcisismo. È troppo complicato cercare di raggiungere una pace interiore o un’illuminazione per elevazione.. per ricerca più profonda dei valori della natura umana. E quindi sembra che, almeno una massa, sia più attratta a perdersi nel nulla. Cioè, a perdersi veramente nel nulla.»
Avviandoci alla fine di questa stimolante discussione, vogliamo concludere con una domanda aperta: quali sono le impressioni che ricava stando a contatto con la varietà di fedeli che si rivolgono a lei?
«È una bella occasione di crescita. Perché l’Islam, o la religione in generale, non è qualche cosa che può essere soltanto limitato ai libri. Io ho avuto l’occasione e il piacere di studiare, di incontrare maestri, di viaggiare per approfondire la comprensione e la messa in pratica di questa prospettiva religiosa, sia in Oriente che in Occidente, nella situazione contemporanea. Anche se gli insegnamenti erano forse più di maestri del passato.. Ho cercato un po’ di interpretare e collegare quello che è il grande patrimonio della tradizione con la vita nella società contemporanea, collegando la ricchezza dell’Oriente, non soltanto dell’Oriente islamico, con una situazione secondo me abbastanza critica dove dobbiamo portare una testimonianza.. che è quella dell’Occidente. Quindi, è necessario, a mio avviso, unire tradizione ad attualità e non fare il tradizionalismo avulso dal presente.. e , contemporaneamente, cercare di unire l’Oriente all’Occidente.
In quel senso lì, mi colpisce quando alcuni politici al giorno d’oggi dicono ‘noi dobbiamo ritrovare i valori sacrali dell’Europa, che sono la nostra matrice giudeo-cristiana. Perché l’Europa è cristiana e non ha nulla a che fare con questi immigrati musulmani’. A questo proposito, magari è una cosa molto banale, però ci si dimentica che l’Europa ha un patrimonio che, intanto, non nasce con le religioni che sono venute da Oriente, ma molto prima; e poi le religioni che sono venute da oriente sono Ebraismo, Cristianesimo e Islam, oltre a Induismo e Buddismo. Ecco che, quindi, inventarsi una radice dell’Europa cristiana un po’ ‘stona’.. perché sembra quasi che si vogliano misconoscere a Gesù le sue radici o la sua universalità o la sua spiritualità. E questo è il grande rischio: che, alla fine, interpretazioni paranazionali o settarie o ideologiche o nazionalistiche possano poi prevalere corrompendo e compromettendo il patrimonio dell’umanità e anche il concorso delle fedi e dei religiosi alla qualità della vita in Occidente.»
(Chiedendo all’imam di consegnarci un messaggio conclusivo)
«Abbiamo parlato della crisi della società occidentale.. dei limiti della modernità.. della idiozia della criminalità del terrorismo jihadista.. o dell’abuso della sharīʿa o del Corano al di fuori del contesto della vera religione islamica. Fatti tutti questi chiarimenti, rimarrebbe, almeno per un religioso come me, l’aspetto dell’escatologia. Cioè, unire all’obiettivo centrale della vita anche la coscienza dei tempi in cui viviamo. Riferendomi, come prima, alla figura di Gesù, alcuni saggi ebrei aspettano il Messia, i cristiani attendono la seconda venuta di Gesù e i musulmani anche.. Quindi, da un punto di vista della tradizione e della civiltà abramitica, potremmo dire che dovremmo essere fedeli alle nostre dottrine per preparare la nostra fine verso un bene veramente supremo. Ma anche concorrere ad un bene in questa vita, in questo mondo, nell’attesa di un pacificatore che è questo Messia. Ma se invece cominciamo già adesso a fare l’identità Europea del Cristianesimo o a discriminare Gesù perché era semita o veniva dal Medio Oriente.. e vogliamo creare un artificio di civiltà che sia occidentale, non religiosa, o spiritualista, o tradizionalista, o emancipata dai dogmi oppure dogmatica, lì siamo in crisi.
La speranza è che veramente si possa ritrovare una luce. E il concorso anche delle minoranze religiose in Occidente può forse essere un messaggio o un contributo ad una pacificazione interiore in attesa di una vera pace. Il che, oso dire, con quello che succede in Medio Oriente, ci fa molto preoccupare. Nell’illusione di essere una società progredita abbiamo ancora dei conflitti armati tra Russia e ucraini, tra cristiani ortodossi da un lato e dall’altro.. oppure l’antisemitismo e i jihadisti che concorrono ad un disastro umanitario nel sud di Gaza con complicità della politica occidentale e totale indifferenza.. Anche lì i controsensi dell’Occidente.. Macron che manda i suoi soldati della legione straniera a difendere gli ucraini.. E se l’Iran manda i razzi a distanza di otto ore in Israele, le portaerei americane le intercettano al 99% ma se c’è un esercito che sta per distruggere il sud della striscia di Gaza dove c’è un milione di persone che non ha difesa, perché Hamas non è un esercito di difesa, sono soltanto dei terroristi, allora non c’è nessun intervento. Cioè, chi difende l’umanità? Non voglio associare all’umanità i palestinesi di Gaza però ho l’impressione che tutte le soluzioni e tutti i controsensi siano privi di intelligenze e di sensibilità spirituale.
Quindi la speranza, ma anche la preghiera, è che si possa risvegliare non soltanto una consapevolezza del pluralismo e delle complessità, ma anche una visione della vita che sia un po’ più sana perché mi sembra che ci sia molta confusione, molta manipolazione e molta incoerenza. Non dobbiamo né disperare né fare gli eroi però risvegliare una possibilità di convergenza interiore ed esteriore.. questo potrebbe essere molto utile.»
Ringraziamo l’imam Pallavicini per averci dedicato il suo tempo e per aver condiviso con noi i pensieri e le riflessioni maturate nel corso della sua lunga esperienza sul campo della rappresentanza istituzionale dell’Islam in Italia.
L’immagine in evidenza ritrae la Moschea al-Wāhid di Milano ed è stata estrapolata da coreis.it al seguente link: https://www.coreis.it/moschea.
La fotografia dell’imam Yahyā Sergio Yahe Pallavicini è stata estrapolata da ispionline.it al seguente link: https://www.ispionline.it/it/bio/yahya-pallavicini.
La Redazione di Antropia.it si occupa di intervistare personaggi di rilievo nel panorama culturale regionale, nazionale e internazionale, allo scopo di portare voci autorevoli che possano trasmettere un messaggio costruttivo ed essere baluardi della cultura in Italia.