Fare festa fa parte dell’essere umano
5 min readAccadde una volta che decine di migliaia di soldati nemici deposero spontaneamente le armi e celebrarono insieme il Natale. Come fu possibile, il giorno dopo, tornare a uccidersi? La festa non è forse prerogativa di una comunità, dunque impossibile tra nemici?
Altri festeggiamenti inauditi, accaduti in luoghi di dolore e privazione, ci spingono a rileggere le stesse feste “normali”, per scoprire come un certo modo ritmico di stare insieme non sia solo l’espressione di una futile nostalgia folkloristica. Ha radici evolutive, attestate nella vita sociale dei primati nostri precursori, e corrisponde in termini sociali a quelle intense relazioni a due, tra madre e figlio, tra amanti, tra amici, che sono cardine di ogni esperienza vitale.
Uno degli antropologi che in epoca recentissima ci ha portati alla scoperta di questi avvenimenti e sentimenti è Paolo Apolito, docente di Antropologia Culturale presso l’Università Roma Tre e di Salerno, con il suo libro “ Ritmi di Festa”.
Le feste, coi loro rituali e le specifiche modalità legati a luoghi e storia, sono da tempo oggetto particolareggiato di studio da parte degli antropologi, che nelle feste rinvengono la trasposizione simbolica delle paure, delle necessità e della loro elaborazione da parte delle diverse civiltà e comunità etniche.
Nel moderno immaginario la festa è un evento programmato e conclusivo che ricorda e celebra un passaggio gioioso, spesso successivo a un periodo di difficoltà, oppure a un momento di licenza dalle regole (si pensi al carnevale), in tutti i casi, colleghiamo il fare festa alla musica, al ballo, a tutto ciò che riguarda i piaceri del corpo, e soprattutto alla condivisione di tutto ciò con altri esseri umani. Ci risulta difficile se non impossibile concepire una manifestazione di allegria e di festeggiamenti in un momento di guerra, di privazione, o di indifferenza. Gli antropologi si sono invece posti la domanda : vi è un impulso festivo? Biologico? Pre-culturale?
L’indagine parte proprio da quei casi estremi di festeggiamento avvenuti in condizioni ostili.
La tregua di Natale
A partire dalla notte di Natale del 1914 in cui si tenne quella che fu chiamata “la tregua di Natale” lungo la linea del fronte, che andava dal mare del Nord alla Svizzera, e vedeva contrapposti gli eserciti inglesi e francesi a quelli tedeschi. Secondo la testimonianza di Graham Williams, un fuciliere britannico, verso la mezzanotte del 24 dicembre, al di là delle trincee, si cominciarono a vedere tante piccole luci di alberelli accesi, seguite dal canto “Stille Nacht Heilige Nacht”. Dopo la prima sorpresa gli Inglesi risposero con il tradizionale inno natalizio “The first Nowell”. Altri canti di pace, di buona novella, di amore seguirono e arrivarono anche gli applausi, da una parte e dall’altra. Così senza alcun accordo preventivo si rompeva il divieto, imposto dagli alti gradi di entrambi gli eserciti di combattere senza sosta e per lunghi tratti del fronte, i combattenti si diedero una tregua.
Da entrambe le parti si riuscì finalmente a seppellire i morti che stazionavano nei fossi, ma, soprattutto, un gran numero di soldati provenienti da unità tedesche e britanniche lasciarono spontaneamente le trincee per incontrarsi nella terra di nessuno per fraternizzare, si scambiarono così il cibo, i canti, le bevande, l’umanità, ben sapendo che da un momento all’altro sarebbero tornati a spararsi l’uno contro l’altro. La tregua non fu un evento organizzato, né universalmente diffuso: in diverse zone del fronte i combattimenti proseguirono per tutto il giorno di Natale.
Questo episodio resta un simbolo di festa ed è quindi rilevante come dal punto di vista antropologico: il canto, la recita di versi, lo scambio di cibo, di battute e di gesti possano innescare anche fra sconosciuti, o addirittura fra nemici un istinto a riconoscersi, in quanto esseri della stessa specie. Quasi come quando compatti volano gli stormi o nuotano banchi di pesci o i primati si concedono umani abbracci, esplicitando cioè la necessità di creare momenti di attenzione comunitaria attraverso la produzione di suoni e risate.
Nei bar di Caracas
Per citare un altro episodio: la notte del 30 ottobre del 1974 stava per svolgersi l’incontro di pugilato più atteso dal mondo, per il campionato mondiale dei pesi massimi, che vedeva come avversari George Foreman e Muhammad Ali. L’antropologo Lavend, che si trovava a Caracas per la sua ricerca sul campo, dopo cena cedette alla curiosità ed entrò in un bar per assistere anch’egli all’attesissimo incontro. Tutti tifavano Ali e di fronte la sue vittoria tutti iniziarono a gridare per la gioia e a scambiarsi abbracci.
Estranei fino a poco prima, ora uniti da un sentimento di unità e di gioia. La gente sentiva un cameratismo che trascendeva l’estraneità.
Ma tra gli episodi di questo genere potremmo citare la caduta del muro di Berlino e le scene di festeggiamento collettivo da tutti viste in TV, o addirittura testimonianze sul senso di humor e festa che si respirava ad un certo punto nei gulag o nei lager. È nel “tra” che si ritrova quel qualcosa, quella forza magnetica che concretizza l’impulso a festeggiare, scandagliando il festeggiamento, portando alla luce quel frammento che serba la festa, capace addirittura di distrarre il pensiero dinanzi alla morte e alla tragedia.
Un dinamismo magnetico che solo in certe condizioni si sviluppa (come la musica), con un energia inarrestabile, che attrae e lega insieme le persone, sorprendendo proprio quando opera in situazioni drammatiche.
Siamo quindi in presenza di una situazione che va al di là degli intenti dichiarati e della volontà di festeggiare per una ragione specifica, ma affonda le sue radici nel senso ritmico dell’uomo. Il ritmo è sviluppato in maniera nettamente superiore rispetto a qualsiasi altro animale, e presente fin dal concepimento e dalla vita dell’essere umano, rispetto alla quale il bambino adegua costantemente il proprio ritmo.
Un elemento fondamentale che si unisce al senso del ritmo è sicuramente la capacità mimetica; per intenderci è la medesima abilità che è alla base della nostra capacità di apprendere. La mimesi è sempre attiva attraverso i neuroni specchio scoperti da Rizzolatti, e teorizza l’assunto che noi tendiamo ad adeguarci fisicamente a chi abbiamo davanti.
Gli impulsi di festa, legati a una matrice biologica profondissima e insopprimibile, prevalgono e sorgono anche nelle occasioni più impensate. Sta poi all’elaborazione culturale dell’uomo renderli un’occasione di aggregazione vera, di conoscenza transetnica, di allargamento dell’umanità.
Possiamo dunque supporre un legame tra l’antropologia e le neuroscienze assolutamente inscindibile.
Mi sono laureata in Lettere con indirizzo antropologico-geografico presso l’Università di Salerno. Ho conseguito due master: in Marketing presso lo IED di Milano e in Logistica Internazionale presso l’Università di Firenze. Ho fatto della Antropologia e della Etnografia una passione ed un lavoro. Attualmente sono docente di italiano nella scuola secondaria di primo grado, occupandomi di antropologia sociale e culturale della preadolescenza. Leggere è la mia passione, scrivere il mio impulso irrefrenabile.