Settembre 16, 2024

Il futuro della ricerca sull’Alzheimer. Intervista a Giacomo Siano

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Abbiamo intervistato Giacomo Siano, ricercatore sull'Alzheimer, per farci raccontare questa patologia e quali potrebbero essere gli approcci terapeutici più efficaci.

Abbiamo intervistato Giacomo Siano, ricercatore post-doc presso l’istituto di neuroscienze del CNR a Pisa. Si occupa di Alzheimer e taupatie, sia su screening di molecole terapeutiche contro la patologia di tau sia lo studio dei meccanismi fisiopatologici di tau nel compartimento nucleare del neurone

Cosa rende il morbo di Alzheimer una patologia così difficile da studiare?

«La difficoltà nello studio della malattia di Alzheimer è dovuta alla quantità altissima di variabili che partecipano e vengono alterate durante la patologia. Anche l’organo interessato, il cervello, è un’ulteriore causa di difficoltà nello studio, in quanto difficile da analizzare con le attuali tecniche ed estremamente complesso nella sua organizzazione (struttura ed eterogeneità di tipi cellulari e funzioni). Il morbo di Alzheimer è una patologia neurodegenerativa che colpisce principalmente le cellule neuronali del cervello e si manifesta clinicamente con progressiva perdita di memoria, disturbi dell’umore, del linguaggio e confusione. A livello tissutale, si osservano danni e riduzione del volume cerebrale inizialmente nel lobo temporale, area coinvolta nella memoria e comportamento, coinvolgendo progressivamente altre parti del cervello. A livello cellulare, si possono osservare cambiamenti dei meccanismi omeostatici delle cellule neuronali e gliali che portano a malfunzionamento, alterazioni sinaptiche e morte cellulare. Durante i numerosi anni di investigazione dei meccanismi della malattia, è stato osservato che le proteine chiave coinvolte nella malattia sono il peptide Aβ e la proteina Tau, che subiscono modifiche e aggregazione, causando danni molecolari e cellulari che portano poi ai sintomi tipici della malattia. Ma recentemente sono state individuate altre proteine che sembrano partecipare significativamente a questi danni cellulari, aggiungendo ulteriori variabili ai meccanismi che mediano la patologia. Con queste informazioni si è solo scalfita la superficie riguardo la complessità del morbo di Alzheimer e proprio la compresenza di tantissime variabili coinvolte a vari gradi nella patologia suggerisce la grande difficoltà nel chiarire tutti gli aspetti della malattia».

L’Alzheimer si può considerare come una malattia ereditaria? Oppure la predisposizione genetica è marginale nello sviluppo della malattia?

«Attualmente si possono considerare due correnti di pensiero principali nella ricerca. Una considera il background genetico dell’individuo come un fattore chiave che porta all’insorgenza della malattia, e su questo filone esistono importanti studi che effettivamente supportano la tesi genetica dell’Alzheimer, descrivendo specifiche mutazioni che sembrano influenzare significativamente la funzionalità neuronale inducendo successivamente la demenza. L’altra corrente di pensiero, a cui personalmente sono più affine, è che la componente genetica può avere un ruolo ma che non sia una causa preponderante all’insorgenza dell’Alzheimer. La teoria è che la componente genetica costituisce più una predisposizione a sviluppare la malattia, non una causa diretta. A supporto di questa tesi ad esempio c’è il fatto che non tutti gli individui in cui è stata identificata una particolare mutazione associata al morbo di Alzheimer hanno poi sviluppato effettivamente la patologia. In conclusione non c’è una risposta univoca alla domanda, sicuramente la genetica ha un ruolo rilevante sia nell’insorgenza della malattia sia nella ricerca per controllare le variabili e ricreare una situazione patologica da studiare, ma attualmente non può essere ancora considerata come causa principale».

L’incidenza dell’Alzheimer sta aumentando nella popolazione? Quali sono i fattori preponderanti che stimolano l’insorgenza di questa patologia?

«In anni recenti si è osservato un aumento significativo dell’incidenza dell’Alzheimer nella popolazione e non solo, sembra che i sintomi della malattia appaiano anche in età più precoci. L’età avanzata contribuisce ancora in maniera preponderante al rischio di Alzheimer ma altri fattori stanno emergendo e sembrano avere un ruolo nel favorire la malattia tra cui la genetica, le condizioni di salute come il diabete e l’ipertensione, fattori relativi allo stile di vita come il fumo e l’alcool, scarsi livelli di istruzione, la mancanza di attività fisica e la dieta. Anche l’abuso di strumenti elettronici può avere un effetto negativo sul cervello. Mantenere il cervello attivo è fondamentale per preservare la funzione cognitiva nel corso della vita e alcuni semplici accorgimenti sembrano impattare positivamente sulla memoria e sul prevenire la demenza. ad esempio: l’esercizio fisico regolare stimola la circolazione sanguigna al cervello; una nutrizione equilibrata porta benefici per la salute cerebrale; la stimolazione mentale come la lettura e imparare una nuova lingua o uno strumento musicale aiutano ad allenare la memoria; il sonno di qualità è essenziale non solo per lo sviluppo e il mantenimento della memoria ma anche per il funzionamento di tutti gli organi; le relazioni sociali hanno un ruolo importante per la salute mentale e cognitiva. Spesso per pigrizia o superficialità dimentichiamo di curare aspetti personali importanti che poi nel lungo termine possono avere effetti significativi sul nostro cervello: dobbiamo solo sforzarci e impegnarci anche con piccole azioni semplici, che, però, ripetute nel tempo possono avere un grande effetto positivo sulla nostra salute».

La diagnosi precoce dell’Alzheimer potrebbe essere una soluzione per rallentare o bloccare il processo deteriorativo della malattia? Perché rimane così complesso diagnosticare forme precocissime di Alzheimer?

«Uno dei limiti scientifico-clinici che maggiormente impatta sullo studio dei meccanismi della malattia di Alzheimer e di conseguenza sullo sviluppo di terapie efficaci risiede proprio negli attuali metodi di diagnosi della patologia. In tempi recenti, grazie alla ricerca e progresso tecnologico che hanno messo a disposizione strumenti sempre più precisi e sensibili, è possibile integrare un numero elevato di test cognitivi e motori, analisi specialistiche (risonanza magnetica, PET, l’EEG) e analisi di specifici biomarker, che permettono di stabilire con una certa precisione se il paziente è affetto da Alzheimer e la severità della malattia, anche se l’affidabilità diagnostica richiede ancora test post-mortem. Con le attuali tecniche di indagine però ancora non abbiamo una sensibilità sufficiente ad ottenere la certezza della diagnosi soprattutto quando i sintomi sono molto precoci. Questo limite impatta significativamente sia sulle eventuali terapie da dare al paziente sia sulla ricerca dato che, a meno di studi molto mirati, i danni cellulari sono già più o meno avanzati e quindi i meccanismi patologici sono già stati attivati. Un motivo è la difficoltà di accesso al cervello per analisi dirette e i test su altri fluidi o tessuti corporei (CSF, sangue, urine) forniscono attualmente risultati molto variabili in base all’individuo e allo stadio della malattia. Un altro limite per lo sviluppo di diagnosi precoci è legato al fatto che generalmente un individuo consulta il medico una volta presenti dei sintomi, quando il danno cellulare è ormai avvenuto, anche se ancora circoscritto. Generalmente, nel caso di una familiarità della malattia di Alzheimer, gli individui di una stessa famiglia vengono monitorati anche in assenza di sintomi, favorendo, in quei casi specifici, una corretta diagnosi in maniera tempestiva. Alcuni studi hanno evidenziato la possibilità di marker diagnostici molto precoci, anche diverso tempo prima dell’insorgenza dei sintomi, ed è quella la direzione auspicabile da intraprendere per lo sviluppo di test di monitoraggio e prevenzione del morbo di Alzheimer e per l’intervento terapeutico prima che il danno cerebrale sia irreversibile».

Perché l’Alzheimer è una patologia così complessa da curare?

«Un po’ come per la difficoltà di studio e diagnosi della malattia, il morbo di Alzheimer è caratterizzato dalla compresenza di un numero elevatissimo di variabili a vari livelli, dalla familiarità e genetica al supporto sociale, la sintomatologia e la diagnosi, l’organo interessato e il fatto che sia circoscritto e isolato, fino ai meccanismi cellulari e molecolari che impattano sulla funzionalità della cellula e del tessuto. Questi elementi rendono molto complesso sviluppare cure efficaci per prevenire o bloccare la malattia. Un primo problema risiede nella variabilità dei sintomi e della progressione della malattia, fattore che partecipa significativamente alla difficoltà di effettuare una diagnosi affidabile ed impattando, di conseguenza, anche sull’eventuale terapia da stabilire. Un altro problema chiave risiede negli attuali limiti di conoscenza della malattia, dovuti sia alle caratteristiche stesse della patologia che ai limiti tecnici e tecnologici. Per sviluppare terapie è necessaria una profonda investigazione di tutti gli aspetti che mediano la patologia in modo da identificare possibili bersagli terapeutici, ma la numerosità delle componenti che concorrono alla progressione della patologia rende molto complesso identificare i meccanismi centrali che causano poi la cascata di malfunzionamento cellulare. Diversi aspetti della malattia sono noti e tantissimi studi hanno sviluppato approcci più o meno efficaci nel trattamento della malattia di Alzheimer. Allora perché queste cure non sono ancora disponibili? Diversi limiti dipendono per esempio dalla modalità di far arrivare la cura al cervello, che è un tessuto molto isolato, oppure dal danno aspecifico ad altri organi, comportando l’impossibilità dell’utilizzo di una potenziale terapia. Come si evince, gli innumerevoli aspetti coinvolti nella sindrome di Alzheimer, a volte scollegati tra di loro o strettamente interconnessi, rendono difficile l’approccio allo studio della malattia e quindi lo sviluppo di cure efficaci. Comunque la comunità scientifica è sempre attiva e negli ultimi anni il progresso tecnico e tecnologico unito a scoperte sempre più ampie dei meccanismi coinvolti nell’Alzheimer, permettono di guardare con ottimismo al futuro».

In una delle sue ultime ricerche ha evidenziato il ruolo epigenetico della proteina tau, pensa possa essere uno dei futuri target centrali nella terapia del futuro?

«Tau è una proteina chiave per il corretto funzionamento della cellula neuronale e durante la malattia di Alzheimer subisce delle modifiche patologiche e aggrega causando danno alla cellula, malfunzionamento e morte cellulare. Recentemente abbiamo descritto un ruolo non canonico di Tau anche nel nucleo con un impatto significativo su varie funzioni centrali del neurone, come la trasmissione sinaptica. Attraverso meccanismi epigenetici che cambiano la struttura della cromatina, Tau modifica significativamente l’espressione di numerosi geni alterando l’omeostasi neuronale. La cosa rilevante è che queste modifiche dipendenti da Tau sono più strettamente associate a stadi precoci della malattia di Alzheimer. Questi risultati, inseriti in un contesto più ampio di altri studi e ricerche precedentemente svolti e ancora in corso, indicano che è importante se non indispensabile intervenire nelle fasi iniziali della malattia e che uno dei possibili target terapeutici è rappresentato proprio dai meccanismi epigenetici della cromatina. Attualmente il targeting di Tau a livello cerebrale è tecnicamente ancora molto complesso mentre i meccanismi epigenetici sono molto ben caratterizzati e soprattutto facilmente modulabili tramite farmaci specifici che sono sotto sperimentazione o già in uso su pazienti affetti da altre malattie e quindi facilmente traslabili sulla malattia di Alzheimer. Ovviamente sono necessari ulteriori studi e validazioni su modelli di Alzheimer per valutare l’effettiva efficacia del trattamento terapeutico finalizzato a governare meccanismi epigenetici, . Sicuramente un aspetto da prendere in considerazione nello sviluppo di un eventuale approccio terapeutico è la stabilità e la struttura del genoma con i suoi meccanismi epigenetici associati, data anche la sua importanza generale nel corretto funzionamento di tutta la cellula».

In quale misura i dispositivi elettronici, entrati prepotentemente nelle nostre vite, possono influenzare la nostra memoria?

«Negli ultimi anni, il progresso tecnologico ci ha progressivamente portati ad essere sempre connessi e sovrastimolati da informazioni continue proprio perché i dispositivi elettronici come PC e cellulare sono alla portata di tutti e permettono di eseguire task con una facilità e velocità che fino a pochi anni fa era impensabile. Io stesso penso che i dispositivi elettronici siano una facilitazione e un “potenziamento” delle possibilità umane, ma solo con un uso ragionato e consapevole, senza scaturire nell’abuso e la dipendenza. Molti studi cercano di analizzare come l’uso dei dispositivi elettronici possa influenzare il nostro cervello e alcune evidenze suggeriscono che un eccesso nel loro utilizzo possa essere anche dannoso per la memoria. Sono stati osservati effetti negativi sulla memoria e sulle funzioni cognitive dovuti all’eccessivo utilizzo di schermi e dispositivi digitali. In particolare il costante multitasking, l’elaborazione di eccessive informazioni e le continue distrazioni possono ridurre la capacità di attenzione, causare problemi di memoria e influenzare le funzioni cognitive a causa di sovraccarichi nella memoria. Un altro aspetto che sembra danneggiare il cervello è nella qualità della stimolazione dovuta ai dispositivi elettronici. Molte attività su schermo offrono una stimolazione passiva per il cervello rispetto alla realtà e questo può avere effetti sulla capacità di memorizzare e concentrarsi. L’uso prolungato dei dispositivi elettronici può alterare il volume del cervello, aumentando il rischio di disturbi mentali e compromettendo l’acquisizione di memoria e l’apprendimento, fattori noti per l’insorgenza della malattia di Alzheimer. Anche l’impatto sul sonno è un punto essenziale, infatti si è visto che l’uso eccessivo di dispositivi elettronici, soprattutto prima di dormire, può disturbare il sonno, che a sua volta influisce in maniera centrale sulla memoria e sulla funzione cognitiva ed è strettamente correlato allo sviluppo di demenze. Comunque gli strumenti elettronici non hanno solo aspetti negativi perché un corretto uso permette una stimolazione attiva con effetti positivi sul cervello, mantenendolo in allenamento e rafforzando le funzioni cerebrali. Questi aspetti suggeriscono che è importante bilanciare l’uso dei dispositivi elettronici per preservare la salute mentale e la memoria».

Grazie a Giacomo Siano per averci concesso questa intervista!

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