Il genocidio cambogiano
4 min readIl termine “genocidio” viene utilizzato per indicare la distruzione di un determinato gruppo razziale, etnico, religioso, politico ecc. portata avanti attraverso l’eliminazione fisica di tutti i suoi rappresentati, nonché della storia, dei valori e dalla cultura a esso collegati. La storia umana ha differenti esempi di tale sterminio, alcuni più noti (come nel caso dell’Olocausto), altri meno conosciuti. Tra questi vi è, senza alcun dubbio, quello del popolo cambogiano, che, sia per le caratteristiche della sua attuazione (questo è il solo genocidio che sia stato perpetrato da una popolazione su se stessa), sia per l’impatto ottenuto (si stima che il 25% della popolazione totale della Cambogia sia stata vittima del regime), è stato uno dei più “singolari”.
Le origini di tale genocidio sono rilevabili nel 1976, quando la milizia degli “Khmer rossi” (gruppo paramilitare del Partito Comunista di Kampuchea), dopo anni di lotte interne, è riuscita a rovesciare il Capo di Stato cambogiano Norodom Sihanouk (ex sovrano del Paese), instaurando una Repubblica comunista in Cambogia. Quest’ultima è stata rinominata Kampuchea Democratica, mantenendo tale denominazione sino al 1979.
Il 13 maggio del 1976 gli khmer rossi hanno nominato come Primo Ministro della Repubblica il politico Saloth Sâr, meglio conosciuto con lo pseudonimo di “Pol Pot”, che ha immediatamente varato numerose e radicali riforme di stampo comunista, ispirate da quelle che erano state le politiche culturali di Mao Zedong. Difatti, il Partito Comunista Cambogiano era stato sostenuto a lungo dal Partito Comunista Cinese, che nel solo anno 1975 aveva fornito al Paese quasi un miliardo di dollari come supporto economico.
Nel suo progetto politico, Pol Pot mirava a ristabilire un potente impero khmer, ispirato al glorioso passato del Paese, diminuendo l’influenza straniera all’interno della popolazione (soprattutto le ingerenze di stampo occidentale) e “purificando” gli abitanti della Cambogia.
Perciò, da una parte vennero introdotte riforme d’ispirazione sovietica/cinese/vietnamita, riguardanti la collettivizzazione della proprietà e la reintroduzione di una forte politica agraria (tutte riforme fallimentari che non comportarono altro se non carestia e migliaia di morti a causa degli orari di lavoro massacranti), dall’altra, il regime cambogiano iniziò quello che può essere chiaramente identificato come un genocidio, o ancor più nello specifico, un auto-genocidio, della popolazione interna al Paese.
Che si trattasse di oppositori politici (reali o presunti tali), cittadini eccessivamente occidentalizzati, soggetti sgraditi al regime per i motivi più eterogenei (coloro che portavano gli occhiali, per esempio, dovevano essere eliminati, poiché considerati come “intellettuali”) ecc. il governo comunista cambogiano iniziò uno degli stermini più esteso e violento della storia.
Il numero delle vittime confinate in prigioni o campi di prigionia è stato altissimo, soprattutto perché assieme ai detenuti veniva imprigionata anche la loro famiglia (indipendentemente dall’età o dal sesso dei membri), così che questa non potesse vendicarsi del regime in alcun modo. Ovviamente, la quasi totalità dei reclusi non conosceva i capi d’accusa.
Tuttavia, gli khmer rossi non si limitavano esclusivamente alla prigionia, ma anche la tortura venne ampiamente praticata, spesso raggiungendo livelli così atroci, che molti dei detenuti tentarono più volte il suicidio. Per tale motivo, all’interno delle prigioni tutti i detenuti dovevano necessariamente avere le mani legate.
Alla fine della detenzione i prigionieri venivano uccisi in specifiche fosse comuni. Tuttavia, considerato il costo considerevole delle pallottole, l’esecuzione avveniva mediante strumenti di uso contadino, come falci, martelli o chiodi.
I neonati, invece, subivano un “trattamento speciale”, venendo scaraventati contro quelli che vennero definiti gli “Alberi del Chankiri”.
Inoltre, molte volte le torture non erano utilizzate come mezzo per estorcere informazioni, ma si rivelavano un vero e proprio passatempo per le guardie, che dimostravano la propria fedeltà al regime mediante azioni sempre più efferate.
Il governo comunista cambogiano, tuttavia, per lo svolgimento di tali compiti non utilizzava uomini adulti, ma prediligeva l’impiego di ragazzini incattiviti e cresciuti in contesti di estrema violenza. Ragazzini che spesso avevano anche il compito di diventare quelli che venivano definiti come “medici bambini”. Il partito comunista cambogiano, difatti, aveva ucciso tutti i medici del Paese, o li aveva spediti al lavoro nei campi, abolendo la medicina occidentale, definita come “invenzione capitalista” (che i gerarchi del regime, però, non disprezzavano per loro stessi) e distruggendo gran parte del sapere medico della Cambogia (ne fu un triste esempio l’incendio della biblioteca della Facoltà di Medicina di Phnom Penh). Per ovviare alla mancanza di medici, alcuni ragazzi dovevano apprendere in completa autonomia la pratica della medicina, mediante l’esecuzione di “esperimenti” piuttosto vari. Tutto questo senza l’utilizzo di farmaci (quindi senza anestesia per le “cavie”), considerato il fatto che la Cambogia aveva il dovere di essere completamente autonoma.
Ovviamente, tali “esperimenti” non avevano nessuna rilevanza in campo medico.
Ancora oggi non siamo certi del numero esatto delle vittime della dittatura degli khmer rossi (vittime comprendenti sia tutti coloro che sono stati uccisi direttamente da guardie e/o soldati, sia tutti coloro che sono morti per il lavoro estenuante nei campi e per le frequenti carestie), ne disponiamo di una cifra univoca. Cionondimeno, possiamo stimare che la cifra complessiva dei morti si aggiri tra un minimo di 800.000 persone (stima fornita dallo stesso dittatore Pol Pot), e un massimo di 3.300.000 vittime (secondo le stime del governo vietnamita).
Sono un giovane sociologo determinato, motivato e appassionato. Possiedo una Laurea Triennale in Scienze Politiche, una Laurea Magistrale Biennale in Sociologia e Ricerca Sociale e sono attualmente iscritto all’Associazione Sociologi Italiani. Mi occupo principalmente di ricerca e analisi sociale, consulenza e scrittura. Sono madrelingua italiano, parlo inglese a un discreto livello, e comprendo anche lo spagnolo e il francese. I miei passatempi preferiti sono la lettura e il kendo.