Novembre 18, 2024

Sia fatta la tua volontà! – (Parte 1)

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Uno sguardo disilluso (e per questo scientifico) sul tema dell'intelligenza artificiale, al fine di coglierne le possibilità al di là di ogni narrazione mitologica.
mito intelligenza artificiale

(fonte immagine: www.in.mashable.com)

Il mito dell’intelligenza artificiale tra hybris e desiderio di salvezza

Il grande C.G. Jung ha descritto in questi termini la forza del mito: “che cosa noi siamo per la nostra visione interiore e cosa l’uomo sembra essere sub specie aeternitatis, può essere espresso solo con un mito. Il mito è più individuale, rappresenta la vita con più precisione della scienza. La scienza si serve di concetti troppo generali per poter soddisfare alla ricchezza soggettiva della vita singola.”.

Successivamente, il tema del mito è stato ampiamente investigato dallo storico americano J. Campbell. Per Campbell, in sintonia con quanto detto da Jung, i miti sono potenti storie il cui obiettivo è quello di guidare lo spirito umano: Il sogno è un mito privato, il mito è un sogno pubblico; sia il mito che il sogno sono allo stesso modo rappresentazioni simboliche delle dinamiche della psiche. Ma mentre nel sogno le immagini sono deformate dai problemi peculiari del sognatore, nel mito i problemi e le soluzioni disseminate sono valide per tutta l’umanità.”.

Tra tutti i miti, quello di Prometeo è senza dubbio il più attuale. Si racconta che un giorno Zeus gettando un’occhiata su quanto accadeva sulla Terra si accorse che i suoi abitanti, sia animali che umani, vivevano pressoché allo stesso modo; gli esseri umani infatti trascorrevano le loro tristi esistenze nascosti in grotte dalle quali, pieni di paura, uscivano solo per procurarsi il cibo. Il signore dell’Olimpo allora, preso probabilmente da compassione, chiamo il Titano Epimeteo ordinandogli di recarsi sulla Terra e provvedere a tutti questi esseri, portandogli ciò di cui avevano bisogno. Epimeteo però la combinò grossa: si dedicò totalmente agli animali dimenticandosi degli umani. Non a caso il nome Epimeteo deriva dal greco “epí “ (dopo) e “métis” (intelligenza) a voler significare colui “che arriva (col pensiero) dopo (in ritardo)”; uno un po’ lento a comprendere, diremmo oggi. Della mancanza di Epimeteo si accorse subito suo fratello, Prometeo, dal greco “prό” (prima), e nuovamente “métis” (intelligenza), ovvero colui “che arriva (col pensiero) prima (degli altri)”; un tipo molto smart diremmo oggi. Prometeo, che amava moltissimo il genere umano, corse subito ai ripari e andando oltre le intenzioni di Zeus, sottrasse il fuoco ad Efesto (dio greco del fuoco e della metallurgia) con cui questi forgiava i fulmini per Zeus, per farne dono agli uomini. Un dono che cambiò le sorti dell’umanità (e anche quelle di Prometeo) rivoluzionandone la vita sotto tutti gli aspetti e permettendogli di assurgere a poco a poco ad uno status di supremazia rispetto ai cugini animali.

E’ per questo che il fuoco, nel mito di Prometeo, viene interpretato come la prima grande conquista (il mezzo) nella lunga scalata dell’umanità verso il progresso.

Il progresso, dal latino “progrèdior“: marciare avendo qualcosa come obiettivo. Coglierne il significato nella lingua greca invece è molto più complesso; come ci spiega il filologo Luciano Canfora: “in greco ci sono più parole che esprimono differenti sfumature di questa nozione [progresso]: ἐπίδοσις (epìdoṡi) che significa soprattutto “accrescimento”; προκοπή (prokopḗ) che vuole dire “tagliare la strada in avanti, rendere più corto il cammino, donde l’idea di avanzare”, ma c’è anche προέλευση (proélefsi) che si riferisce soprattutto al significato materiale del termine [accrescimento]. Notiamo in ogni caso la sottigliezza dialettica del greco: in greco progresso è in rapporto al tempo stesso con l’accorciamento (προκοπή) e con l’accrescimento (ἐπίδοσις).

(Prometeo – fonte immagine: web)

Tra i primi a raccontarci la storia di Prometeo ci fu il poeta greco Esiodo. La sua visione dell’accaduto è tutt’altro che positiva: con la sua trasgressione, Prometeo, sconvolge l’ordine cosmico, generando quello squilibrio che è origine dei mali del mondo. In parole povere, per Esiodo, il progresso è sinonimo di declino dell’essere umano. Una visione certamente conservatrice.

Non di questo avviso invece fu il drammaturgo conterraneo Eschilo che vedeva in Prometeo un benefattore dell’umanità, il fondatore della civiltà, colui che ha donato all’uomo la tecnica di tutte le arti.

Due visioni diametralmente opposte, inconciliabili, e che per questo ci sollecitano a scovare un’ulteriore possibilità, magari seguendo il consiglio della regola aurea latina: “in medio stat virtus” (la virtù sta nel mezzo). In fondo, se il progresso è un “avanzare” o un “accrescere”, bisogna essere sicuri che si “avanzi verso” e si “accresca” realmente il bene di ogni essere umano.

Tanta euforia, ma anche tanti dubbi in merito, suscita da qualche anno a questa parte l’ultimo (e forse più impattante) progresso che l’umanità si appresta a traguardare: mi riferisco a quella nuova tecnologia che viene indicata genericamente come intelligenza artificiale.

Di cosa si tratta? Ecco quanto riportato su www.europarl.europa.eu:L’intelligenza artificiale (IA) è l’abilità di una macchina di mostrare capacità umane quali il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la creatività. L’intelligenza artificiale permette ai sistemi di capire il proprio ambiente, mettersi in relazione con quello che percepisce e risolvere problemi, e agire verso un obiettivo specifico. Il computer riceve i dati (già preparati o raccolti tramite sensori, come una videocamera), li processa e risponde. I sistemi di IA sono capaci di adattare il proprio comportamento analizzando gli effetti delle azioni precedenti e lavorando in autonomia.

Una definizione questa che a ben guardare crea non pochi equivochi. Prendiamo ad esempio l’affermazione che l’IA è una macchina abile (programmata) nel “mostrare capacità umane”; come dire, che questa macchina è in grado di simulare capacità umane: prima fra tutte l’intelligenza.

Ma andiamo per ordine.

Il primo scienziato che si innamorò della possibilità di creare una macchina “intelligente” fu il genio matematico inglese Alan Turing che più di mezzo secolo fa scriveva: ”Credo di sicuro, e spero, che non si faranno molti sforzi per costruire macchine dotate di caratteristiche (a parte quelle intellettuali) specificamente umane, come per esempio la forma del corpo. Mi sembra futile fare tentativi del genere, i cui risultati avrebbero all’incirca la stessa sgradevole qualità dei fiori artificiali. Fare una macchina pensante mi sembra un lavoro che rientra in una categoria diversa”.

Come determinare però se una macchina è davvero “pensante”? Turing colse subito la necessità di elaborare un criterio per determinare cosa doveva fare una macchina “intelligente” rispetto ad una non intelligente.

(Alan Turing – fonte immagine: web

Nell’articolo “Computing machinery and intelligence”, apparso nel 1950 sulla rivista Mind, il matematico inglese, prendendo spunto da un gioco (Imitation Game), suggerisce un metodo, che successivamente verrà conosciuto come Test di Turing.

Per Turing, lo scopo del test è rispondere alla seguente domanda: può una macchina essere confusa con un umano in una conversazione telematica?

Di cosa si tratta.

L’Imitation Game prevede la partecipazione di tre giocatori A, B e C e consiste nel mostrare a C due schermi, telescriventi, attraverso cui comunicare, per iscritto, con A e B (che sono in stanze diverse, quindi C non li vede). A è un uomo, B una donna. Scopo di C è quello di indovinare quale, tra A e B, sia l’uomo e quale la donna, solamente scrivendo delle domande ad entrambi ed analizzandone le risposte. In più, mentre B deve aiutare C a fare la giusta valutazione, A di contro cerca di sviarlo (cercando in quale modo di apparire come una donna). Il gioco viene ripetuto più volte determinando così la percentuale di errore di C (quante volte indovina e quante sbaglia). Si passa quindi alla fase due, al vero e proprio Test di Turing, andando a sostituire, all’insaputa di C, A con una macchina. Il gioco prosegue e si registra nuovamente la percentuale di errore nei tentativi di C: se la percentuale risulta uguale o inferiore a quella registrata con esseri umani, allora si può affermare che la macchina esibisce un comportamento intelligente, indistinguibile da quello di un umano.

(schema del test di Turing – fonte immagine: web)

Ovviamente, il fatto che una macchina “esibisca” un comportamento intelligente non implica che lo sia e di questo Turing ne era consapevole. Il genio britannico, infatti, arrivò ad ammettere che un algoritmo “intelligente” sarebbe stato più simile ad un “pappagallo ammaestrato“, in grado di dialogare ma incapace di pensare, visto che riconosceva l’esistenza di una differenza sostanziale tra comportamento intelligente (fenomenologico) ed entità intelligente (ontologico).

Il test, in fondo, prendendo spunto da un gioco, determina per l’appunto quanto una macchina sia in grado di imitare (imitation game), o meglio, può essere confusa con un umano.

In tale affermazione è implicito il concetto di inganno.

Già in diversi si sono accorti della questione. Ad esempio, Emily Bender, direttrice del Laboratorio di linguistica computazionale dell’Università di Washington, che in un’intervista di più di un anno fa su Repubblica dichiarò: “ChatGPT è poco più di un pappagallo: è un pappagallo stocastico, nel senso che, quando ci risponde, non ripete in maniera pedissequa le frasi su cui è stato allenato, come i pappagalli veri, ma mette insieme le parole seguendo una distribuzione di probabilità”.

Per chiarezza diciamo che i processi stocastici sono modelli matematici utili per descrivere la legge probabilistica con cui un certo fenomeno può evolvere nel tempo (in genere in modo casuale), “facendo delle prove (o osservazioni) ripetute dello stesso processo, si ottengono diversi andamenti nel tempo (realizzazioni del processo); osservando le diverse realizzazioni a un istante 𝑡{\displaystyle t} si ottiene una variabile aleatoria 𝑋(𝑡){\displaystyle X(t)} che comprende i diversi valori che il processo può assumere in quell’istante” (fonte wikipedia). Come dire: un processo stocastico è un fenomeno che possiamo misurare, ma non prevedere (come ad esempio, con buona pace degli investitori, l’andamento della borsa valori).

C’è poi il nostro Simone Natale, professore di storia e teoria dei media presso l’Università di Torino che qualche anno fa ha pubblicato un libro, guarda caso, dal titolo “Macchine ingannevoli”. Eh si… perché il problema, come afferma Natale, risiede nella nostra percezione (errata) di come funziona nella realtà l’intelligenza artificiale e nel fatto che noi esseri umani, per natura, siamo facilmente ingannabili…due ingredienti fondamentali per la creazione di un mito.

Ma questo lo vedremo la prossima volta.

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