Il paradigma del progresso
8 min readCon il termine paradigma (dal greco “parádeigma” = “modello/ esempio”) si indica un modello concettuale di riferimento, ovvero ciò che costituisce un termine generale di riferimento. Nella pratica i paradigmi hanno una funzione molto rilevante, in quanto determinano il modo in cui diamo un senso al mondo; stabiliscono i confini per quello che è considerato un modo di guardare alla realtà consensualmente condiviso. Ognuno di noi pensa e agisce entro i confini dei paradigmi della propria cultura. Un paradigma interiorizzato, quindi, ha il potere di pilotare la nostra interazione con la realtà in maniera inconsapevole. Per questo si parla di paradigm blindeness ovvero, quando adottiamo visioni schematiche del mondo, tendendo automaticamente a rigettare le informazioni che non coincidono con le nostre opinioni. Siamo incapaci di accettare che un paradigma possa essere messo in discussione. In fondo, vorrebbe dire mettere i discussione noi stessi, chi siamo e soprattutto il nostro rapporto con gli altri.
Ma il progresso è sempre passato da lì, dalla messa in discussione di un determinato paradigma dominante. Non è difficile richiamare alla memoria la storica diatriba del 17° secolo tra Galileo Galilei e la Chiesa; uno scontro che alla fine ha fatto crollare un mondo, con la sua visione geocentrica dell’universo, ma che, come sappiamo tutti, costò allo scienziato la condanna agli arresti domiciliari fino alla sua morte.
Cercando sul web si trovano tanti altri simpatici ed illustri scivoloni prodotti da questo tipo di cecità.
Eccone alcuni:
– Questo “telefono” ha troppe imperfezioni per essere seriamente considerato un mezzo di comunicazione. Per noi il dispositivo non ha alcun valore intrinseco. — nota interna di Western Union, 1876
– Il fonografo non ha alcun valore commerciale. – Thomas Edison, 1880
– Macchine volanti più pesanti dell’aria…impossibile.” — Lord Kelvin, presidente, Royal Society, 1895
– È un sogno irrealistico immaginare che le automobili prenderanno il posto delle ferrovie negli spostamenti a lunga percorrenza – American Road Congress, 1913
– Non c’è alcuna probabilità che l’uomo possa mai sfruttare il potere dell’atomo – Robert Millikan, Premio Nobel per la fisica, 1920
– Chi diavolo vorrebbe sentire parlare gli attori?!? — H.M. Warner, Warner Brothers, 1927
– Penso che ci sia un mercato globale per, forse, cinque computer — Thomas Watson, presidente IBM, 1943
– Non ci sono motivi di pensare che qualcuno un giorno vorrebbe un computer a casa propria — Ken Olson, presidente e fondatore di Digital Equipment Corp., 1977
La lista sarebbe ancora più lunga. Tra tutti su cui si regge la società attuale, ce un paradigma che ne sostiene più di tutti le speranze, o le illusioni. Lo abbiamo menzionato poco fa: si tratta del paradigma del progresso. Come ci dice il filosofo inglese John Nicholas Gray, da cui prendo ampi spunti per questo mio articolo, mettere in discussione l’idea di progresso nel XXI secolo è impensabile; nelle persone un tale pensiero suscita a dir poco sgomento, rabbia e panico, perché siamo terrorizzati dalla possibilità di fermarci. Il risultato di tutto ciò? Una fede incrollabile nel paradigma cardine.
Come argomenta Gray, questa idea di progresso deriva più da un atto di fede che da una qualsiasi forma di indagine empirica. Si guarda all’enorme progresso in termini tecnico-scientifici a cui l’umanità ha assistito nel suo passato più prossimo, e si vorrebbe trasporre tale dinamica ad altri ambiti, quali quello politico ed etico. Il ragionamento sarebbe questo: la scienza (intesa come sapere tecnico) procede per accumulazione di conoscenza (non c’è dubbio sul fatto che oggi sappiamo più di qualsiasi generazione precedente). Da tale presupposto ne deriva che come la conoscenza continua ad aumentare, così la condizione umana può essere migliorata per mezzo di tale conoscenza, in ogni ambito dell’esistenza umana. Ma il filosofo a questo punto del ragionamento ci riporta con i piedi per terra osservando: ”In termini di uccisioni di massa di esseri umani da parte di altri esseri umani, il XX secolo è stato il peggiore nella storia; ma sicuramente – si obietterà – dobbiamo credere che tali orrori possano essere evitati in futuro”. Il progresso tecnologico è stato di aiuto nel perpetuare tali orrori.
Eppure, l’idea di un progresso continuo e inarrestabile della civiltà umana era sconosciuta per una buona parte del mondo antico.
Tra i filosofi classici il paradigma di un eterno ritorno era più comune: per Pitagora ciclicamente tutto si ricreava come era stato, quindi nulla di ciò che si trovava sulla terra era di per sé nuovo; per Aristotele la storia era solamente un alternarsi di periodi di crescita e di successivo declino non diversi da quello che osserviamo nella vita di piante ed animali. Gli stessi concetti li troviamo in pensatori più moderni: anche David Hume credeva che la storia fosse ciclica, con periodi di pace e libertà seguiti regolarmente da guerra e tirannia. Lo stesso punto di vista lo troviamo in Thomas Hobbes e Voltaire.
Da dove proviene allora questa paradigma che ci spinge ad anelare un eterno miglioramento, in una continua ascesa sulla scala del sapere? Dalla religione. A loro insaputa, i sostenitori del progresso inarrestabile travisano un assunto fondamentale della modernità, cioè che la vita moderna è in continua trasformazione da parte della scienza. L’assunto di per sé è corretto nel suo significato oggettivo, il problema però nasce dal fatto che tale trasformazione viene caricata di speranze e valori mutuati dalla religione.
Vediamo perché. Nelle culture extra-bibliche, e soprattutto in quelle orientali, vigeva una concezione ciclica del tempo, in accordo con quanto veniva osservato attraverso i cicli stagionali. Nella visione ciclica, di cui abbiamo accennato poc’anzi, il tempo può essere rappresentato da una ruota che gira, dove ogni attimo è unico ma non irripetibile in una logica fluida. Una sequenza che si ripete, un insieme di fasi che ritmicamente si susseguono, in un continuo divenire, un perenne ritorno di elementi che si alternano senza sosta. Ad esempio, tra i maya il tempo era suddiviso in cicli della durata di duecentocinquantadue anni; l’esperienza umana consisteva quindi in un processo ciclico.
Con il testo biblico si ha una rivoluzione radicale nella concezione del tempo; un’idea originale che inaugura un nuovo paradigma del tempo, e che si svilupperà gradualmente nel corso dell’Antico Testamento. Come ha sottolineato lo studioso ungherese Julius Thomas Fraser, per mezzo della cultura ebraica “la storia smise di essere semplicemente un susseguirsi di fatti e divenne, invece, un complicato intreccio di eventi che progredivano da un inizio ben preciso verso un fine stabilito. La storia venne concepita come storia della salvazione e con essa nacque l’idea di tempo lineare”. Potremmo dire un tempo dell’attesa, della speranza, in grado di proiettare l’uomo verso un nuovo traguardo attraverso l’evolversi della sua coscienza, man mano che egli è raggiunto dall’insegnamento di Dio. Un messaggio che guarda con certezza a un futuro nuovo senza più violenze e ingiustizie in cui addirittura la morte sarà vinta (Nuovo Testamento): un progetto divino che si svilupperà gradualmente nell’arco di alcuni millenni; un progetto con un inizio ed una fine (la fine dei tempi).
Per questo Gray ci dice che la moderna fede occidentale nel progresso “è la progenie di un matrimonio tra apparenti rivali”: ovvero fede cristiana e il potere crescente della scienza nell’Europa di inizio Ottocento. “Dalle speranze escatologiche del cristianesimo” continua il filosofo “ereditiamo la convinzione che nel flusso della storia si possa trovare significato e persino salvezza. Dal progresso accelerato della conoscenza scientifica acquisiamo la convinzione in un progresso simile da parte dell’umanità stessa. In fondo, come detto, nel cristianesimo la storia non può essere priva di significato: è un dramma morale, che inizia con una ribellione a Dio e termina con il Giudizio Universale”. Ma proprio in questo inizio della storia, nella ribellione, troviamo un indizio importante: il racconto presente nella Genesi ci dice che la caduta dell’essere umano fa seguito alla sua decisione di cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza. Un messaggio sibillino, tanto più che, come troviamo descritto nel racconto biblico, dopo la caduta, l’uomo comincia a fare esperienza di un “eccitante senso di potere” che lo porterà inevitabilmente a confrontarsi con “tutti quei mali che si generano nel momento in cui delle creature imperfette usano la conoscenza per perseguire i propri scopi contrastanti”.
Come nel racconto biblico della tentazione, assunto centrale dell’idea moderna di progresso è che la conoscenza accresca la libertà umana, ma la storia ci dice altro: la realtà è che la conoscenza aumenta solamente il potere umano.
“La scienza ha permesso l’innalzamento del tenore di vita nelle società industriali avanzate; di contro l’industrializzazione mondiale sta innescando una lotta per il controllo delle risorse naturali che ormai scarseggiano. È la scienza che ha reso possibile l’attuale crescita demografica; ma il mix di crescita demografica e progressiva industrializzazione è la causa del cambiamento climatico. La scienza genera conoscenza, ma la conoscenza non è un bene assoluto. Può essere tanto una benedizione quanto una maledizione”.
Come già accennato, secondo il filosofo inglese uno degli errori fondamentali che si commette oggigiorno è pensare che i progressi che si sono verificati in termini di conoscenza scientifica possano essere replicati in altri settori della vita umana. Questo trasforma il concetto di progresso in una sorta di religione laica, anche se la scienza, a differenza dell’escatologia biblica, non può porre fine alla storia, anche se ne avrebbe i mezzi, almeno per quanto riguarda quella della civiltà umana.
“La conoscenza umana cambia, ma i bisogni umani rimangono più o meno gli stessi. Gli esseri umani usano la loro crescente conoscenza per soddisfare i loro bisogni contrastanti”. Da questo la scienza trae la sua autorità: dal donare agli essere umani sempre più potere sul loro ambiente e sui suoi simili. Pensare che il progresso serva fini più elevati, diversi dalle sole necessità umane, vuole dire farne una ricerca del trascendentale, di quella verità che secondo Platone governa il mondo. Ma questo, avverte Gray, è pensiero pre-scientifico, è il rinnovarsi di una fede mistica.
D’altra parte, nel corso dei millenni, le religioni hanno sostenuto e consolato l’essere umano, dando un senso al suo essere nel mondo; religioni nate, sopravvissute per secoli e poi sparite. Forse la stessa sorte toccherà anche alla religione del progresso, ma questo avverrà solo se in cambio verrà offerto all’uomo qualcos’altro che gli possa dare uguale consolazione e speranza, o forse solamente quando avremo finalmente fatto pace con quella smania di potere che chissà da quale momento della nostra storia ha cominciato ad agitarsi in noi, mescolandosi con tutte le nostre fragilità ed una buona dose di follia.
Credo che in fondo Gray abbia ragione. Se nelle nostre vite abbiamo bisogno di consolazione e speranza meglio rivolgersi alle religioni: assolvono a questo compito in maniera più efficace di quanto possa fare la scienza, visto che sono nate proprio con questo intento.
Mi piace definirmi un ingegnere umanista. Ho una laurea in ingegneria meccanica ad indirizzo gestionale, ma la mia vera passione è l’essere umano, la mia filosofia di vita: “uomo conosci te stesso”. Osservo, studio, sperimento, condivido, perché come disse un tizio: “poter condividere è poesia nella prosa della vita” (S. Freud)