Dicembre 25, 2024

Io non penso positivo

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Prendo spunto per questo mio articolo dal titolo di un libro che ho letto qualche anno fa, “Io non penso positivo” della ricercatrice tedesca Gabriele Oettingen (allieva, paradossalmente, di Martin Seligman fondatore della corrente della psicologia positiva).

Il tema che vi presento mi è molto caro. Una certa cultura d’importazione, che da anni ci viene sdoganata allegramente, ci vorrebbe tutti con la mentalità del supereroe infallibile. Lo slogan che da anni ci viene proposto come panacea per tutti i male o solo per allontanare un po’ la noia è: pensa positivo e la vita ti sorriderà!

Ma l’esperienza insegna che la vita è altro. La saggezza, per il sottoscritto, risiede altrove; gli antichi lo sapevano. In epoca romana la celebrazione di una vittoria militare era la più alta ricompensa che si potesse tributare ad un generale che si fosse distinto in modo eccezionale per bravura e coraggio. A pochi veniva riservato l’onore di sfilare sul carro del vincitore tra migliaia di persone osannanti, col volto dipinto di rosso, cosa che lo equiparava ad un dio.

Proprio per l’eccezionalità dell’evento, per evitare che il condottiero si montasse troppo la testa e perdesse così le sue abilità tanto utili alla causa dell’impero, la ritualità del momento prevedeva che sul carro, insieme al generale, ci fosse anche uno schiavo (condizione diametralmente opposta a quella del vincitore) che da dietro, tenendo sul capo del condottiero una corona dall’alloro, gli sussurrava all’orecchio: “Memento mori, memento te hominem esse, respice post te, hominem te esse memento.”, ovvero: “Ricordati che devi morire, ricordati che sei un uomo, guardati attorno, ricordati che sei solo un uomo“.

Ricordati che sei solo un uomo. Sembrerebbe frutto del puro cinismo rammentare l’ineluttabilità della condizione umana a chi, in quel momento, ha raggiunto l’apice della gloria…ma non è proprio così.


Se l’opera di grandi pensatori del passato non ci bastasse, studi recenti ci confermano (la Ottingen in primis) che fantasticare troppo in termini ottimistici sulle nostre capacità e sugli obiettivi che vogliamo conseguire rischia di indebolire la nostra motivazione e di metterci nella condizione di sottostimare gli ostacoli che si possono frapporre tra noi e la metà che ci siamo prefissi di raggiungere, con la conseguenza che di fronte al mancato avverarsi di una nostra aspettativa (ostacolo inaspettato) rischiamo di crollare.

Un esempio estremo in tal senso ce lo fornisce Victor Frankl nel racconto della sua odissea nei campi di concentramento nazisti:

C’è un caso sul quale mi fece riflettere il medico capo del nostro Lager: nella settimana tra il Natale 1944 e il Capodanno 1945, avevamo avuto una mortalità mai riscontrata fino ad allora, nel nostro Lager. Anch’egli era convinto che il fenomeno non dipendesse nè da aggravate condizioni di lavoro, nè dal cibo più scadente, né da un mutamento del clima o da nuove epidemie; mi disse invece che si doveva ricondurre questa morte in massa a un certo dato di fatto: quasi tutti i detenuti si erano cullati nell’usuale, ingenua speranza di poter essere a casa per Natale. Allorché i giornali diedero notizie assai poco rassicuranti, mentre questa data s’avvicinava sempre di più, l’internato era preso da un generale sconforto e da una grave delusione, i cui influssi pericolosi sulla forza di resistenza dei detenuti si fecero sentire proprio nell’altissima mortalità di quel periodo. “ (tratto da “Uno psicologo nei Lager” – V. Frankl).

Il culto dell’ottimismo, del pensare sempre in positivo ha presa sulle persone perché risulta un lenitivo all’apparenza efficace per quel senso di incertezza e di vulnerabilità che la vita porta con se. Quel “Ricordati che sei solo un uomo” è insopportabile per tanti di noi, ma la realtà è proprio questa: che l’uomo in quanto tale è vulnerabile e che la vita è carica di incertezza. La ricerca continua di sicurezza e di certezza attraverso il pensiero positivo, se spinto all’eccesso, risulta incompatibile con la vita stessa.

Ci possiamo illudere in tanti modi, ma la realtà non cambia. La vita è fatta di continui piccoli e grandi fallimenti, di dolore, perdite; è l’insieme di tutti questi eventi che plasma il nostro essere e, ancora più importante, che concorrono alla costruzione dei nostri successi: Soichiro Honda (fondatore della Honda) diceva “Il successo è al 99% fatto di fallimenti”.

Il pensiero positivo restringe il campo visivo attraverso cui guardiamo la vita ed è così che rischiamo di perderne la pienezza.

Diventa allora importante allenarci a stare nell’incertezza, nell’indefinito, a sviluppare ciò che Keats chiamava “capacità negativa”, ovvero la capacità di rimanere sospesi tra dubbi ed incertezze, controllando la spinta innata che c’è in noi a razionalizzare, a ricercare soluzioni rassicuranti, a dare un senso. E’ l’atavica fuga umana dall’”horror vacui” di aristotelica memoria, fuga quanto mai irrazionale, perché il vuoto è arkè, il principio che da origine a tutte le cose; è la fuga da ciò che non possiamo comprendere, perché il vuoto è mistero ed il mistero è quella parte della vita che è più grande di noi: ricordati che sei solo un uomo.

Ma allora il pensiero positivo, l’ottimismo è tutto da scartare? Ovviamente la risposta è no. Come ci insegna la Oettingen, assumere un atteggiamento positivo, essere ottimisti (senza eccedere) ci può aiutare a controllare l’ansia, specialmente in tutte quelle circostanze in cui dopo aver fatto ciò che potevamo fare non ci rimane altro che aspettare. E’ il caso ad esempio di quando siamo in attesa di un responso dopo un colloquio di lavoro.

Una mia convinzione è che la natura sia una grande maestra da cui possiamo imparare tante cose utili per la nostra vita. La natura contiene in se il concetto di polarità (caldo/freddo, giorno/notte), la vita si sostiene sulla polarità. Pensiamo ad esempio ad una comune pila, quel semplice cilindretto metallico (o quadrato) che ci serve per dare vita a tanti oggetti di uso quotidiano, beh, la pila funziona, ovvero ci fornisce la corrente che ci serve, solo se mettiamo in contatto i due poli opposti di cui è dotata. Pensiamoci bene! Nella pila positivo e negativo sono due polarità e servono entrambi affinché avvenga il passaggio di corrente.


Perché allora pensiamo che nelle nostre vite di polarità ne basti solo una?

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