La Battaglia di Canne
8 min readNessuna battaglia che si sia mai svolta nella storia ha la stessa rilevanza, sia per l’abilità dimostrata da un generale, sia per il risultato raggiunto, sia per lo shock provocato a un nemico, della Battaglia di Canne. Un esempio perfetto di coordinazione, tattica e tempistica bellica, che ancora oggi viene ampiamente studiato e analizzato in tutte le accademie militari.
Fu la più grande vittoria del generale cartaginese Annibale Barca, e la più pesante disfatta di Roma. All’abilità del primo si contrapposero gli errori e la superficialità della seconda, in una concatenazione di eventi che portarono al più grande trionfo militare della storia.
La Battaglia di Canne si svolse durante l’anno 216 a.C., nel pieno della Seconda Guerra Punica. Dopo le sconfitte che Annibale aveva inflitto alla Repubblica, nella Battaglia della Trebbia e in quella del lago Trasimeno, Roma decise di risolvere la questione una volta per tutte. La città era stanca del conflitto, ed era desiderosa di una sua conclusione rapida. Ma, soprattutto, aveva sete di rivincita.
Visto i risultati riportati in campo, e il deludente andamento della guerra, il dittatore a cui Roma si era affidata, Quinto Fabio Massimo, definito in modo dispregiativo “Cunctator”, ovvero il “Temporeggiatore” (perché considerato una persona poco risoluta e decisa), venne esautorato dal suo incarico. Fu, tecnicamente, l’ultimo dei veri dittatori nominati da Roma. Difatti, tutti quelli che vennero eletti in seguito ebbero numerose limitazioni nei propri poteri, compresi, perlomeno all’inizio, Silla e Cesare.
La città decise di tornare al sistema di tipo consolare, che solo sei mesi prima era stato considerato completamente inadeguato per l’andamento del conflitto. Si prepararono, allora, le elezioni del marzo 216 per la successione di Servilio e Regolo, ai quali era stato restituito il comando delle legioni. In quel periodo, i due consoli si trovavano in Puglia nei pressi di Calena, così da poter svernare con l’esercito e monitorare le mosse del generale cartaginese. Tanto era il terrore di commettere qualche impudenza o di una possibile mossa a sorpresa di Annibale, che i due comandanti non presidiarono nemmeno alla cerimonia di trasferimento dei poteri. Fatto assolutamente straordinario nella storia dell’Urbe.
Il clima generale in città era quello dell’ardimento e dell’attacco. Non solo si voleva una battaglia vittoriosa nel più breve tempo possibile, ma si desiderava una vittoria schiacciante. Una rivalsa degna di questo nome.
Fu così che il Senato decise di aumentare il numero delle legioni da quattro (due per console) a otto. Fu una mobilitazione senza pari nella storia della città, che creava una potenza d’attacco doppia rispetto a quella di Annibale.
La scelta dei consoli non fu facile, ma dopo numerosi scontri politici, venne scelto per il partito popolare Caio Terenzio Varrone, e per quello patrizio Lucio Paolo Emilio. La coppia, però, era male assortita, e nessuno dei due aveva l’esperienza né la capacità necessaria per risolvere una situazione tanto delicata. Tra i due, inoltre, ci furono immediatamente degli attriti.
Intanto, mentre Roma organizzava la mobilitazione generale, venne rinfrancata da un nuovo spirito d’ottimismo. Difatti, dal fronte spagnolo giungevano ottime notizie. Le truppe di Publio Scipione e Gneo detto il Calvo avevano sconfitto più volte le truppe cartaginesi lasciate da Annibale guidate da suo cugino Annone. Quest’ultimo era stato catturato, mentre una flotta cartaginese era stata annientata alla foce dell’Ebro. In più, il giovane Asdrubale, fratello di Annibale, cominciava a perdere potere e stabilità politica a Nuova Cartagine.
Tutto questo, ovviamente, era motivo di grande preoccupazione per Annibale, conscio della fragilità della situazione. Anche lui, come i suoi avversari romani, desiderava la battaglia, bramava un’altra vittoria, ancor più importante delle precedenti. Il generale, infatti, sapeva che l’unico modo per piegare Roma fosse quello di sobillare i suoi nemici e spezzare le sue alleanze nella penisola. Questo sarebbe successo solo dimostrando la debolezza dell’esercito romano sul campo. Mostrando a tutti la fragilità della città.
Dal canto suo, Roma era sicura della vittoria. Oltre all’aggiunta di nuove legioni, sia queste che quelle già mobilitate vennero rafforzate nella composizione, con un aumento di un migliaio di fanti, e di qualche decina di cavalieri per ogni schieramento a cavallo. Identico rinforzo era stato attuato per le formazioni ausiliarie degli alleati. Se il generale cartaginese poteva disporre di 40.000 uomini, Roma ne poteva schierare almeno 90.000.
Però, a questo corposo rinforzo non corrispose un vero e proprio processo di miglioramento. Le legioni erano più numerose, questo è certo, ma nulla era mutato nel numero di reparti, nella suddivisione in linea di battaglia, nello schieramento ecc. L’aumento degli effettivi aveva solo reso le legioni più pesanti, meno facili da manovrare e decisamente più lente.
Come se non bastasse, il settore che più di tutti avrebbe richiesto delle migliorie non venne sufficientemente considerato. Difatti, il numero dei reparti di cavalleria era ancora inferiore rispetto a quello cartaginese, che si era già ampiamente dimostrato un’arma assai temibile. L’esercito romano poteva contare su 6.000 cavalieri contro i 10.000 di Annibale.
Le nuove leve di romane, inoltre, erano composte soprattutto da elementi troppo giovani, che mai avevano visto una battaglia, o che possedevano pochissima esperienza bellica. Nulla a che vedere con i soldati cartaginesi, esperti, sicuri e rafforzati dalle continue vittorie.
Ma Roma non pensava a tutto questo. La sicurezza le aveva già velato la vista.
Prima dell’inizio dell’estate, Annibale decise di spostarsi, abbandonando il campo di Geronio e scendendo verso il sud, nelle ricche pianure pugliesi, nei pressi di una cittadella chiamata Canne, vicino a un torrente che ancora oggi scorre lì vicino, l’Aufidio (oggi denominato Ofanto). I due consoli non rifletterono molto sul da farsi e inseguirono il proprio nemico, posizionando il campo base nel lato opposto del torrente. La posizione cartaginese era decisamente favorevole, e il generale dominava il campo di battaglia da una piccola collinetta.
Il tempo era afoso, il terreno secco e polveroso, il vento volturno (chiamato in tal maniera per il suo soffiare dalle cime del monte Vulture) trasportava immense masse di polvere, che soffocavano gli uomini e ne limitavano la vista.
Annibale aveva scelto (come sempre) con cura il terreno di scontro, e i romani si erano presentati come nelle sue più rosee speranze. La sua cavalleria, ricostruita e rifornita a dovere, poteva muoversi facilmente in quelle vaste pianure, e il facile vettovagliamento rendevano Canne il luogo ideale per i suoi uomini.
Per alcuni giorni i due eserciti non si diedero battaglia, limitandosi a qualche sporadica scaramuccia. Ma il 2 agosto si optò finalmente per lo scontro, svoltosi sulla riva destra a sud del fiume.
Paolo Emilio avrebbe voluto studiare meglio il terreno (troppo favorevole ai loro avversari) e, magari, cambiare posizione. Ma Varrone, favorito dall’impazienza dei soldati, fece guadare il fiume la sera del primo giorno d’agosto e disporre le legioni allo scontro. I romani si posizionarono con le spalle verso il mare, la pianura sul fianco sinistro e il fiume su quello destro.
Prima di schierare le sue forze in campo, Annibale si prese il tempo necessario per meglio analizzare le mosse romane, rendendosi conto di come le centurie fossero estremamente compatte e ammassate al centro. Era chiaro che l’intenzione dei romani fosse quella di sfondare le linee cartaginesi. La medesima strategia utilizzata nella battaglia della Trebbia, ma con un numero due volte maggiore. Tuttavia, lo schieramento nemico era eccessivamente accalcato al fiume, schiacciando il modesto contingente di cavalleria composto da cittadini romani comandato da Paolo Emilio. Le forze a cavallo alleate guidate da Varrone, invece, erano sul fianco opposto. In quello spazio di appena due chilometri i 90.000 soldati romani non avevano alcuna possibilità di movimento, mentre la cavalleria era mal distribuita e con forze eccessivamente separate.
Annibale non impiegò molto tempo a decidere.
Il generale cartaginese fece schierare il proprio esercito su una sola linea, lunga quanto quella romana. Tuttavia, non optò per un fronte disteso, ma fece disporre i propri soldati in una linea convessa, mostrando il centro in avanti, e mantenendo le ali dietro, insieme alla cavalleria. Lo schieramento cartaginese aveva sulla sinistra la cavalleria pesante di Galli e Spagnoli, sulla destra la cavalleria numida, mentre al centro vi erano le truppe galliche, proprio alla punta della curva, e ai loro lati i veterani libici e iberici.
Lo schieramento ideato dal generale cartaginese fu tanto semplice quanto geniale. I Galli sistemati al centro, meno avvezzi alla battaglia campale e male equipaggiati, sarebbero stato il punto di sfondamento dell’esercito romano, e al cedimento dei Galli per l’urto con le legioni, i romani li avrebbero inseguiti, infilandosi in una sacca. Le ali cartaginesi, molto arretrate rispetto al centro, si sarebbero chiuse intrappolando l’esercito avversario ai lati. La cavalleria, infine, dopo aver sconfitto il corrispettivo romano, avrebbe concluso l’accerchiamento alle spalle.
La Battaglia di Canne si svolse nell’esatto modo in cui venne teorizzata da Annibale.
Accanendosi sui Galli, i Romani s’erano lasciati accerchiare dai Cartaginesi. Il risultato fu precisamente quello che Annibale aveva voluto
Polibio
Fu, ovviamente, una scommessa ad alto rischio. Se i Galli avessero desistito troppo velocemente, il fronte si sarebbe spaccato e i cartaginesi avrebbero perso la battaglia. Ma i calcoli del generale Barca si rivelarono perfetti. Quando la fanteria romana attaccò, i Galli indietreggiarono e le ali circondarono l’esercito romano. Annibale seppe dirigere perfettamente lo scontro, senza ritardi o anticipazioni.
Clausewitz definì il comportamento di Annibale a Canne come:
(…) quello di un orologio.
Clausewitz
La cavalleria cartaginese ebbe facilmente ragione su quella guidata da Paolo Emilio, che venne trucidata. Il console, invece, sfuggendo alla morte, decise di gettarsi nel centro del fronte per condividere la sorte delle legioni.
Anche la cavalleria numida sconfisse facilmente i propri avversari, i cui pochi superstiti si diedero a una vergognosa fuga. Il console Varrone fu allo loro testa.
Compiuto il loro primo compito, la cavalleria di Annibale attaccò l’esercito romano alle spalle, completando l’accerchiamento. La situazione era oramai disperata.
Certo, le legioni avrebbero potuto salvarsi utilizzando la mera forza bruta, così da limitare i danni. Ma per la scomparsa dei comandati (Varrone fuggito e Paolo Emilio caduto sul campo) e per gli spazi estremamente stretti di manovra, non poterono fare altro che lasciarsi lentamente decimare.
Livio scrisse che i cartaginesi:
(…) diedero via libera ai vinti solo quando furono stanchi di uccidere.
Livio
La vittoria di Annibale a Canne fu completa. Il suo genio aveva prevalso.
L’esercito cartaginese contò all’incirca 5.000 morti, molti dei quali appartenevano alle formazioni galliche. I romani, invece, secondo le stime riportate da Livio, poterono annoverare 49.000 caduti e 28.000 soldati fatti prigionieri.
La Battaglia di Canne fu un esempio ineguagliato di trionfo, strategia militare e tattica bellica, che consegnò ad Annibale il titolo di uno dei più grandi generali mai esistiti. L’andamento dello scontro viene ancora oggi considerato come la più inarrivabile delle vittorie ottenute sul campo, nonché gioiello dell’arte della guerra.
Di quell’immensa forza che Roma decise di schierare, di quei 90.000 uomini che la Repubblica oppose al suo più grande nemico, al genio cartaginese, Varrone riportò a Venosa una misero drappello di appena settanta cavalieri. E mentre i cartaginesi poterono festeggiare un successo senza eguali, l’Urbe visse la sua più grave e cocente sconfitta, lasciando sui campi di Canne quasi un’intera generazione di cittadini romani.
Per saperne di più:
- Bocchiola M., Sartori M., “Canne. Descrizione di una battaglia”, Mondadori, Milano 2008.
- Granzotto G., “Annibale”, Mondadori, Milano 1980.
Sono un giovane sociologo determinato, motivato e appassionato. Possiedo una Laurea Triennale in Scienze Politiche, una Laurea Magistrale Biennale in Sociologia e Ricerca Sociale e sono attualmente iscritto all’Associazione Sociologi Italiani. Mi occupo principalmente di ricerca e analisi sociale, consulenza e scrittura. Sono madrelingua italiano, parlo inglese a un discreto livello, e comprendo anche lo spagnolo e il francese. I miei passatempi preferiti sono la lettura e il kendo.