La cultura di massa si sbaglia sulla dipendenza affettiva
4 min readPer dipendenza affettiva disfunzionale si intende uno stato patologico che trasforma la relazione in ragione primaria di esistenza, in condizione unica, indispensabile, per sentirsi vivi, da preservare a qualunque costo, nonostante arrechi più sofferenza che piacere. Nel rapporto non c’è reciprocità; il dipendente affettivo, che può essere sia maschio sia femmina, nasconde un bisogno latente di protezione e uno scarso livello di autostima. Questo binomio lo rende vincolato alla presenza e all’opinione del partner, che interpreterà il ‘carnefice’ di questa danza nella quale nessuno dei due è in grado di costruire qualcosa di reale e sano. Da una parte c’è qualcuno che ha fame di attenzione e considerazione e che non riesce ad avere amor proprio e cura di sé, dall’altra c’è un manipolatore che si pone in una posizione di forza e di controllo sul partner, anche lui con profondi problemi emozionali di base.
La grande differenza con altre dipendenze sta nel premio sociale per il ‘malato d’amore’. La crocerossina spesso, anche se ora le cose stanno lentamente cambiando, è stata elogiata per il suo spirito di rinuncia e di sacrificio. L’isolamento di coppia come sinonimo di grande afflato; le scenate di gelosia patologiche come sintomo d’amore. Mentre tossicodipendenza, alcolismo, ludopatia eccetera sono visti, anche socialmente, come problemi, il ‘mal d’amore’ ha riempito per secoli le trame di libri e film.
Cosa c’è di più bello di un amore impossibile, un amore distruttivo, un lui o una lei da inseguire, cui dedicare tutte le energie, per cui magari morire, drammatico fine di molti romanzi passionali? La cultura stessa nella quale viviamo, a più livelli, mostra come l’amore alienante, travolgente, soffocante, spesso autolesionista sia ‘il vero amore’. Come se sui siti di giochi online l’utente invece di ‘gioca responsabilmente’ trovasse ‘non hai giocato davvero se non hai scommesso tutto quello che possiedi’. Nessun’altra dipendenza ha tanta promozione culturale dalla sua.
Negli ultimi tempi, lentamente, si è cominciata a smontare questa resistente immagine di amore tossico. Una problematica ignorata a lungo dalla cultura ma ben chiara a livello di studi psicologici già da decenni: ne è un esempio ‘Donne che amano troppo’, testo del 1970 scritto da Robin Norwood, psicoterapeuta americana, best seller da milioni di copie. Nella narrativa di massa l’amore doloroso è uno stereotipo vincente, anche le serie, i film e i libri che maggiormente sembrano enfatizzare la libertà morale e sociale delle donne alla fine rischiano di cadere nel cliché della realizzazione attraverso il grande amore; che non ha di per sé nulla di sbagliato, ma sembra sdoganare qualunque tipo di investimento umano per raggiungere l’obiettivo.
Indubbiamente l’amore sano risulta molto meno accattivante dal punto vista della trama, perché è fatto di quotidianità, di complicità, di dialogo, di conoscenza costruita nel tempo e poco di drammi e colpi di scena.
Sono interessanti gli spunti che invece stanno nascendo, in tempi recenti, per affrontare la tematica anche da un punto di vista più narrativo. Tra questi una nota speciale lo merita ‘Proprio a me’, un podcast gratuito prodotto da Choramedia e raccontato da Selvaggia Lucarelli; una serie di storie, tra cui quella della giornalista stessa, di chi ha vissuto una situazione di dipendenza affettiva, che si chiude, nella puntata finale, con una psicologa che tira un po’ le fila della questione. Il podcast è interessante sotto vari punti di vista, il primo è quello di rispondere alla domanda semplicistica di molti: “perché se ti tratta male non lo/la lasci?”. La dipendenza affettiva, come tutte le dipendenze, genera un bisogno. Un gioco di perdita e ricompensa, di adrenalina; una montagna russa emotiva di cui né vittima né carnefice riescono a fare a meno, se non lavorando sulla crescita della propria autostima, sulla consapevolezza della propria identità, sulla necessità di saper costruire una vita anche senza l’altra persona. Questa situazione, per chi non l’ha mai vissuta, può essere difficile da capire, e il racconto in prima persona sicuramente aiuta molto a immedesimarsi nel problema. L’altro aspetto importante è che si tratta di persone che da queste situazioni di dipendenza sono riuscite ad uscire; indicando una via per chi ascolta e pensa di essere unico, solo e senza speranza. Perché il primo passo è proprio riconoscere che la relazione stessa è il problema e va affrontato come tale. Uscire da una relazione di dipendenza affettiva senza cadere in un’altra è come smettere con le droghe o l’alcool.
Far passare questo messaggio anche culturalmente sarebbe sicuramente un grande aiuto per chi deve vincere questa battaglia.
Sono una giornalista professionista, laureata in lettere all’Università di Torino e, come laurea magistrale, in editoria e scrittura alla Sapienza. Ho iniziato nel mondo dei settimanali sportivi per poi indirizzarmi su approfondimenti di carattere politico-sociale e culturale. Credo che sia indispensabile comprendere le dinamiche sociali e le loro conseguenze sul pensiero collettivo per conoscere il mondo che ci circonda.