La dialettica amore-morte in Saramago
4 min readLa dialettica amore-morte ha iniziato a instaurarsi come rapporto narrativo sin dalla letteratura antica, diventando un tema cardine in molte opere letterarie, e Saramago risulta essere uno dei rappresentanti contemporanei di una tematica cara alla letteratura mondiale.
Un antecedente fondamentale è sicuramente il mito di Narciso, dove amore e morte si fondono in una relazione indissolubile: Narciso, infatti, morirà proprio e unicamente quando amerà. Narciso era famoso poiché totalmente incapace di amare, una durezza che lo preservava; conoscendo se stesso riuscirà ad amare, ma questo aprirà una breccia al suo interno che lo ferirà fino a portarlo alla morte. Come è normale, i miti cercano sempre di fare in modo che ciò che raccontano sia utile per spiegare eventi terreni, trattandosi spesso di eziologie: il fiore del Narciso, infatti, si pensava avesse proprietà soporifere e narcotiche, termini derivanti appunto dal greco narkao, quindi condizioni che somigliano alla morte.
Per dimostrare come questa dialettica non sia solo un tema letterario, ma parte integrante della normalità, è interessante notare come in francese, una particolare sfumatura dell’orgasmo femminile venga chiamata petite mort, dimostrazione di come anche l’atto fisico di amare sia, materialmente, una piccola morte.
Parlo di dialettica perché, riferendomi a quel che diceva Hegel, si parla di dialettica quando si descrive un moto tra tesi e antitesi che permette il raggiungimento di una sintesi. In questo caso i due termini in contrasto sono proprio amore e morte, e la sintesi è sempre una soluzione tra le due parti che si esplica in innumerevoli modi.
A questo punto entra in gioco Saramago. José Saramago, scrittore, giornalista, poeta e critico letterario, famoso nel mondo per le sue idee rivoluzionarie e totalmente fuori dal comune, è un esponente fondamentale della dialettica amore-morte.
Notiamo come Saramago tratti questo tema in un modo innovativo, legato al suo metodo di scrittura: l’autore infatti è inventore di un metodo narrativo spesso fuorviante che si basa sulla totale mancanza di una punteggiatura intesa nello stile tradizionale, e sull’utilizzo di una ingente quantità di nomi comuni, nonché una trasformazione dei nomi propri stessi in questi ultimi tramite l’eliminazione delle maiuscole. La scelta è volontaria, tutti i libri rimangono privi di un protagonista e impediscono al lettore di immedesimarsi con un solo personaggio, di modo che possa avere una visione completa e allo stesso tempo frammentaria del testo intero. Non è un rapporto dialettico anche questo, in fondo?
Comunque, ne “Le intermittenze della morte” Saramago raggiunge immediatamente la sintesi perfetta della dialettica amore-morte, proprio perché la protagonista – non protagonista è la morte stessa: mi raccomando, con la “m” minuscola, perché non si parla della “Morte Morte”, come l’autore ci redarguisce più volte.
In breve, la morte scompare dal Paese, ovviamente da un Paese senza nome, e tutti quanti vanno in subbuglio, tra gioie e ansie si scopre che il Paese non può rimanere senza la propria morte. A questo punto la morte stessa, che viene personificata tramite una donna, decide di riprendere il suo compito e comincia a spedire delle lettere a coloro che dovranno morire. Una sola lettera continua a essere rimandata al mittente e la morte si trova costretta a doverla recapitare a mano. Si tratta di un violoncellista, l’unico nome che verrà sempre dato a questo personaggio.
La morte allora entrerà in contatto col violoncellista, lo spierà per capire il motivo di questa falla nel sistema delle missive, e cercherà di analizzarlo: e sta qui il punto di sintesi estrema tra amore e morte, nella sua versione più materiale possibile. La morte si innamorerà davvero del violoncellista, un’entità che si innamora di una persona, ma senza una fine tragica di stampo mitologico.
E ancora, il punto di superamento meraviglioso di questa dialettica, sta nella musica del violoncellista, quando la morte si interrompe di nuovo nel suo compito.
Qui, però, lascio parlare Saramago, perché le sue parole sono molto più esplicative di quanto potranno essere le mie:
“[…] quello che impressionava la morte era il fatto che le era parso di sentire in quei cinquantotto secondi di musica una trasposizione ritmica e melodica di ogni e qualsivoglia vita umana, normale o straordinaria, per la sua tragica brevità, per la sua intensità disperata, ed anche per via di quell’accordo finale che era come un punto di sospensione lasciato nell’aria, nel vago, da qualche parte, come se, irrimediabilmente, fosse rimasto ancora qualcosa da dire.”
Dopo aver conseguito il diploma in scienze umane, un atto di follia mi ha spinto a proseguire con un percorso di laurea in scienze biologiche che, rivelatosi fallimentare, ha spinto lo Zeno Cosini che c’è in me ad iscrivermi al corso triennale di Lettere Moderne, per poi fuggire dalla realtà caotica di Milano, per trasferirmi nella ridente Perugia, dove attualmente studio Insegnamento dell’Italiano agli stranieri, per portare qualcosa dell’Italia anche fuori dalla Penisola.
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