LA RAGNATELA DI PLASTICA
4 min readQuando il salvagente è insostenibile.
È probabile che nel lungo periodo si riducano i profitti derivanti dai prodotti petroliferi. Come agiranno nel lungo periodo le multinazionali coinvolte nella relativa estrazione, raffinazione e distribuzione? La fabbricazione di plastica e derivati si basa in parte su un componente del gas naturale chiamato etano, che viene rilasciato durante il fracking. Gli introiti derivati sfiorerebbero i 400 miliardi di dollari l’anno. Ne beneficerebbero big companies quali ad esempio Shell, British Petroleum, Exxon Mobil. Una sorta di “salvagente”, dunque.
Anche i colossi industriali appartenenti perlopiù ai comparti del tabacco, al settore alimentare e delle bevande (a esempio Nestlè e Coca Cola) hanno imperniato le loro campagne pubblicitarie, paradossalmente, sulla sostenibilità ambientale. E segnatamente sulla riciclabilità – della plastica. Dal loro conto economico si può evincere che il valore del packaging può arrivare sino a un terzo del costo del prodotto.
Ma quante volte?
Di tutta la plastica prodotta nel mondo, a partire dagli anni 50 a oggi, risulta essere stato riciclato solo il 9%. Quasi il 20% se circoscriviamo l’analisi all’Unione Europea. A livello globale, il 2% è stato trasformato in prodotti con la stessa funzione. Il restante 7% in qualcosa di qualità inferiore. Tuttavia, la plastica si “degrada” ogni volta che viene riutilizzata.
In assenza di un’imposta di fabbricazione come quella modulata sui carburanti, addio riciclo. Accade di frequente che la quotazione di vendita della plastica nuova venga ritoccata al ribasso, anche di pochi centesimi. Se un’azienda realizza milioni di articoli, pochi centesimi di costo unitario possono tradursi in costi minori.
Complessivamente, il 90% finirebbe in discariche, disperso nell’ambiente o incenerito. La plastica nuova è spesso concorrenziale rispetto a quella riciclabile, più economica e di migliore qualità.
Gli ostacoli del riciclo. Quando non è possibile separare una plastica dall’altra.
Riuscireste a separare lo zucchero dalle uova in una torta dopo averla messa in forno? Il più delle volte, i prodotti costituiti da diversi tipi di plastica non vengono riciclati.
Le materie prime impiegate per i materiali di consumo odierni devono essere in linea con uno stile di vita “usa e getta”. Una logica che fa a pugni con la sostenibilità.
Pioggia di plastica (quando ognuno fa la sua parte…)
Alcuni ricercatori hanno riscontrato ovunque la presenza di plastica; negli oceani, nell’aria, negli stomaci degli animali marini, persino nella placenta umana!
Gli Stati Uniti, in particolar modo, creano più rifiuti che mai. Nel 2015 il Paese ha prodotto 262,4 milioni di tonnellate di rifiuti, cioè il 4,5 % in più rispetto al 2010, e il 60% in più rispetto al 1985 (quasi 2,5 kg di rifiuti pro capite al giorno).
L’anno scorso, la città di New York ha raccolto ogni giorno 934 tonnellate di metallo, plastica e vetro prodotti dagli abitanti. Si è rilevato un aumento del 33% rispetto al 2013.
Verrebbe da chiedersi se l’aumento di rifiuti plastici sia inversamente proporzionale all’ampiezza dei nuclei familiari, che sono particolarmente ridotti proprio nelle grandi metropoli.
Nello spazio
Prima della Convenzione di Basilea, entrata in vigore il 5 maggio 1992, i commercianti di rifiuti iniziarono a esportare i loro carichi nei Paesi in via di sviluppo. Infatti, poterono approfittare della mancanza di una normativa ambientale specifica.
Nella quasi totalità dei Paesi industrializzati, non è sempre possibile smaltire, confinare o riciclare i materiali di scarto entro i propri confini. Il circuito di compravendita extracontinentale dei rifiuti, particolarmente ramificato, ha permesso di esportare questo problema.
In un precedente articolo ho citato le restrizioni all’importazione imposte dalla Cina sui materiali da riciclo, compresi un certo tipo di carta – riviste, carta da ufficio, posta – e la maggior parte della plastica.
Scatole della pizza, bottiglie di ketchup, e contenitori dello yogurt sono esempi di scarti spediti in Cina, dove venivano selezionati e ripuliti.
Nel tempo
Secondo il Center for International Environmental Law le emissioni legate alla plastica potrebbero raggiungere 1,3 tonnellate entro il 2030, quasi come 300 centrali elettriche a carbone.
Effettivamente, i costi si fanno sentire anche in termini di riscaldamento globale. Infatti, quando i rifiuti organici finiscono in una discarica si decompongono emettendo metano. Le discariche sono la terza fonte di emissioni di metano nel Paese. Bruciare la plastica può creare un po’ di energia, ma produce anche emissioni di anidride carbonica. A tal proposito, da alcune ricerche è emerso che per ogni unità di energia prodotta vengono sprigionate nell’aria più sostanze dannose – come il mercurio e il piombo – delle centrali a carbone.
Dammi una seconda vita...
Tubetti di dentifricio, bottiglie d’acqua che devono andare da qualche parte, hanno avuto un costo che finora il produttore non ha dovuto pagare.
D’altro canto, la scala nazionale è una dimensione non appropriata ove intervenire con gli opportuni incentivi. Un’imposta di fabbricazione sulla plastica sortirebbe gli effetti sperati, se applicata anche oltre la dimensione nazionale.
L’intento dei produttori indiretti di rifiuti è quello di aggirare anche le misure extra-tributarie. Problemi globali richiedono sempre soluzioni globali. In questo, la fomentazione di teorie del complotto può contribuire il rallentamento degli accordi internazionali di cui il nostro pianeta ha bisogno. È importante evitare che si formino delle sostanziali “zone franche” per l’accumulo di rifiuti plastici.
PER SAPERNE DI PIU‘
– https://www.internazionale.it/notizie/alana-semuels/2019/03/22/riciclo-rifiuti-cina
Laureato in economia, mi appassiona l’evoluzione della governance globale, che oggi deve fronteggiare problemi globali. Credo che grazie al metodo scientifico sia possibile cogliere quanto sono meravigliosi il mondo ed il cosmo.
Dopotutto miracolo significa “cosa meravigliosa”.