Novembre 16, 2024

Le frontiere della ricerca scientifica. Intervista a Telmo Pievani

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La ricerca scientifica è in continua evoluzione, a cavallo tra etica e filosofia. Telmo Pievani ci aiuta a capire come si racconta la scienza
Telmo Pievani

Lei è il titolare della prima cattedra di filosofia delle scienze biologiche all’Università degli studi di Padova. Perché insegnare filosofia in un corso di studi scientifici?

Si tratta della prima cattedra in Italia di questo tipo e tra le poche al mondo. Credo che sia una bellissima esperienza di dialogo tra discipline. La filosofia della biologia può aiutare i biologi in vari modi: contribuendo all’analisi concettuale e alla precisione terminologica; proponendo modelli interdisciplinari, soprattutto nel mio campo, cioè la biologia evoluzionistica; favorendo la discussione di ipotesi e l’aggiornamento tra discipline differenti; insegnando agli studenti di scienze il metodo scientifico nel loro settore e le procedure di funzionamento della ricerca; aprendo gli orizzonti di docenti e studenti sui temi bioetici e sulla loro discussione razionale e argomentata (io per esempio insegno Bioetica per le Biotecnologie a tutti gli studenti del terzo anno di Biotecnologie a Padova). Quindi direi un contributo su più fronti.

Darwin pubblicò l’origine delle specie, la sua opera più importante e rivoluzionaria, nel 1859. Da allora la ricerca scientifica ha fatto passi da gigante e nuove scoperte ed osservazioni hanno rafforzato la sua tesi. Oggi, nel 2020, il tema dell’evoluzione è ancora al centro del dibattito scientifico. In che modo è cambiata la teoria di Darwin?

L’evoluzione è o dovrebbe essere la cornice entro cui inserire tutte le scienze della vita. Non è più soltanto una teoria, ma un articolato programma di ricerca, con solide basi sperimentali, che abbraccia un ampio spettro di discipline e integra evidenze assai diverse, dai fossili alle molecole. Il suo nocciolo esplicativo è ancora quello intuito da Darwin a metà Ottocento, ma ovviamente la sua base empirica si è enormemente allargata e anche la sua struttura teorica è stata rivista e ampliata. Oggi sappiamo che le sorgenti di variazione sono molteplici (genetica, epigenetica, culturale), così come i processi selettivi, che altri meccanismi come la deriva genetica, la migrazione e la plasticità hanno un ruolo cruciale, che è importante considerare i fattori ecologici su larga scala, e che i vincoli di sviluppo interagiscono con la selezione naturale. Oggi il programma di ricerca evoluzionistico è più ricco che mai e in rapido aggiornamento.

Il tema della conferenza di oggi è il ruolo della serendipità nella ricerca scientifica. La storia della scienza è ricca di scoperte inaspettate e associate al caso. La nuova prospettiva sul ruolo della casualità nella scoperta scientifica sembra però ribaltare questa visione trovando una logica anche nelle scoperte apparentemente casuali. L’European Research Council ha stanziato degli importanti finanziamenti per studiare i meccanismi di serendipità, che significato ha questo interesse? E in che modo può influenzare la ricerca scientifica?

L’ERC ha deciso di concedere questo finanziamento perché è interessato a capire se si possono migliorare le strategie di finanziamento alla ricerca, ponderando tra ricerca applicata e ricerca di base. Le scoperte serendipiche, spesso di grande impatto, nascono da entrambi i filoni, ma sono favorite maggiormente da un’attitudine più libera e disinteressata alla ricerca, cioè da domande di ricerca mossa dalla sola curiosità di conoscere il funzionamento dei fenomeni naturali. Le scoperte serendipiche hanno una loro tassonomia, cioè schemi storici che si ripetono, e soprattutto possiamo favorirle modificando la nicchia ecologica in cui lavorano scienziate e scienziati, per esempio non essendo troppo focalizzati e pressati dalla fretta di pubblicare, concedendosi maggiore attenzione verso gli errori e le anomalie, e soprattutto coltivando il più possibile uno sguardo interdisciplinare sui problemi di ricerca.

In questo periodo in cui sempre più spesso si sente parlare di crisi politica e della rappresentanza, crisi climatica e ambientale, crisi economica e lavorativa, quale immagina sia e/o dovrebbe essere il ruolo della scienza?

La ricerca scientifica e tecnologica è la grande risorsa, ampiamente sotto-utilizzata, per costruire un’alternativa all’attuale modello di sviluppo e di consumo che sta erodendo irreversibilmente le risorse del nostro pianeta. La comunità scientifica dovrebbe avere più voce ed essere ascoltata nei consessi decisionali. Non per sostituirsi alla politica, ma per affiancarla e per favorire deliberazioni basate su evidenze e su dati condivisi. Non credo a scorciatoie tecnocratiche, ma mi pare altrettanto chiaro che siamo in una fase di gravissima debolezza culturale delle classi politiche in tutto il mondo. Non c’è più visione, programmazione, lungimiranza. I dibattiti pubblici sono di scarsissimo livello culturale e appiattiti su un presente senza prospettive. Si vive alla giornata, senza idee e senza adeguate competenze da spendere. E invece la sfida di mettere insieme la difesa dell’ambiente e la lotta alle diseguaglianze sarebbe, secondo me, esaltante. Non capisco la mancanza di coraggio su questo grande orizzonte della politica dei prossimi anni e decenni.

Chi si occupa di medicina è legato ad un codice deontologico, ma raramente questo accade per chi si occupa di scienza in generale, secondo lei è giusto? Come possiamo essere certi della buona fede di scienziati e ricercatori?

La sensibilità etica all’interno della comunità scientifica, per mia esperienza diretta, è molto alta ed è cresciuta nell’ultimo periodo. Si pensi, per esempio, agli scrupoli e agli interrogativi sull’utilizzo delle nuove biotecnologie basate sul gene editing (una scoperta serendipica, peraltro). Anche se non esiste un codice deontologico unico e universale, ci sono i controlli dei comitati etici e soprattutto i controlli incrociati tra scienziati e tra istituzioni scientifiche. Il collettivo ha tutto l’interesse che le frodi dei singoli, piuttosto inevitabili essendo la scienza fatta da esseri umani, siano smascherate e denunciate. Il vero problema oggi la mancanza di riproducibilità dei risultati in alcuni campi, come quello medico e psicologico. Altra debolezza foriera di guasti è l’ansia di pubblicare. Bisogna poi sempre vigilare sugli investimenti e sugli interessi privati nella ricerca, senza demonizzarli. Ma il pubblico può fidarsi in generale della scienza, perché il dibattito autocritico è sempre aperto e severo.

La scienza può essere raccontata nei modi più originali e creativi e non soltanto attraverso libri e articoli. I Deproducers sono un supergruppo che in maniera innovativa fa collidere due mondi: quello della musica e quello della scienza. Dopo i primi due lavori sul cosmo (Planetario, 2012) e sul mondo delle piante (Botanica, 2016), nel 2019 ha visto la luce DNA che racconta le origini e l’evoluzione della vita in cui lei presta la voce narrante. Com’è stato partecipare a questo progetto?

Si è trattato per me di un’esperienza nuova ed esaltante. DNA è un progetto complesso che mescola tre linguaggi diversi: la narrazione scientifica sul palco; la musica (inedita e sperimentale) dei quattro grandi artisti e performer (Vittorio Cosma, Gianni Maroccolo, Max Casacci, Riccardo Sinigallia); e i visual eleganti di Marino Capitanio. I nove brani non sono stati giustapposti al contenuto scientifico (la storia della vita, il DNA, il cancro), ma sono nati insieme con esso. Era la prima volta che vedevo un processo simile e credo che sia davvero molto avanzato anche rispetto alla scena internazionale. I musicisti hanno un rigore creativo ed esecutivo che non ha nulla da invidiare al metodo scientifico. E poi in scena siamo un collettivo, è un’esperienza umana davvero arricchente, mi sento privilegiato.

Oltre ad essere un brillante professore è anche attivo divulgatore scientifico. Ha all’attivo diversi libri e collaborazioni con testate giornalistiche tra cui Il Corriere della Sera, Le scienze e Micromega. Che consigli può dare a dei giovani che vogliono intraprendere la strada della divulgazione scientifica?

Consiglierei di non sottovalutare la dimensione tecnica della comunicazione della scienza. Non ci si improvvisa comunicatori, come purtroppo stanno facendo in molti sul web e sui social. Io credo che per diventare divulgatori si debba studiare tanto, fare pratica, mettersi in gioco con molta fatica, umiltà e sacrificio. Bisogna conoscere bene le materie di cui si parla e bisogna continuare a sperimentare nuovi linguaggi, format, soluzioni. I pubblici là fuori stanno cambiando ed è importante conoscerli. Personalmente, credo che una strada importante sia quella di mescolare la scienza ad altri linguaggi, come la musica, il teatro, la comicità, l’arte, la graphic novel. Ma senza perdere quelli tradizionali. La via maestra è sempre quella di raccontare non solo i contenuti della scienza, cioè i suoi risultati, ma anche il metodo, la genesi delle idee. Non solo i prodotti, insomma, ma anche i processi ideativi e le storie umane che danno calore al mondo della scienza come impresa sociale.

Ringraziamo il Professore per averci concesso l’intervista.

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