Novembre 17, 2024

L’esperimento di Rosenhan

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La più grande critica al metodo psichiatrico.

L’esperimento di Rosenhan trova le sue basi operative nella formulazione di una determinata domanda, ovvero se sia effettivamente possibile riconoscere e stabile una differenza netta tra la follia e la normalità.  Naturalmente, l’esperimento non voleva mettere in discussione l’esistenza stessa della follia, ma semplicemente l’impossibilità di attuarne un’identificazione sicura. Secondo Rosenhan, inoltre, il principale problema nel riconoscere la “pazzia” non risiede in caratteristiche proprie della malattia, ma nella mente stessa dell’osservatore.

L’esperimento era molto semplice: far ricoverare delle persone perfettamente sane e verificare il comportamento dello staff ospedaliero. Se i partecipanti fossero stati individuati, allora il sistema psichiatrico avrebbe dimostrato le sue effettive capacità.

Il gruppo dei partecipanti, piuttosto eterogeno al suo interno per professione, sesso ed età, era formato da otto pseudo-pazienti. Per sicurezza, tutti hanno utilizzato uno pseudonimo e i partecipanti che avevano una carriera in ambito medico hanno dichiarato professioni differenti, così da non ricevere un trattamento di favore.

Anche David Rosenhan ha preso parte all’esperimento, rendendo nota la sua presenza esclusivamente all’amministrazione ospedaliera e allo psicologo capo (cosa che non è avvenuta per gli altri otto partecipanti). Gli ospedali per lo svolgimento dell’esperimento sono stati scelti a campione, senza alcuna caratteristica peculiare.

La prassi per l’accettazione era sempre piuttosto simile. Lo pseudo-paziente contattava l’ospedale per un appuntamento, e durante la visita lamentava di aver udito delle voci “poco chiare”, che dicevano parole come “vuoto”, “vano” ecc. Le voci erano estranee e dello stesso sesso del paziente. Tale “presentazione” era stata scelta per la similitudine a sintomi esistenziali, ma non riconducibile a una qualsivoglia psicosi. Tuttavia, oltre a questi pochi elementi, nella biografia del paziente non era stato modificato nulla.

I partecipanti sono stati ricoverati tutti (tranne uno) con una diagnosi di schizofrenia e, come a tutti gli internati, non è stata data loro un’idea, anche vaga, di quando avrebbero potuto uscire.

Una volta entrati all’interno dell’ospedale i “pazienti” hanno cessato immediatamente qualsivoglia simulazione, non lamentando e riportando sintomi di anormalità. Ovviamente, in un primo momento, i partecipanti hanno dimostrato nervosismo, sia per la possibilità di essere scoperti, sia per il luogo in sé. Tuttavia, si è trattato di un periodo di breve durata. I pazienti, secondo le istruzioni di Rosenhan, hanno mantenuto un comportamento esemplare, non manifestando più alcun disturbo e seguendo la cura farmacologica (che ovviamente non veniva assunta).

Per l’analisi dei risultati, inoltre, i partecipanti prendevano numerosi appunti riguardanti l’esperienza in manicomio. Inizialmente, i suddetti venivano scritti in segreto, ma dopo aver appurato l’inutilità di tante precauzioni, sono stati scritti alla vista di tutti.

Alla fine, i risultati di Rosenhan hanno confermato la sua critica. Infatti, nessuno dei pazienti è stato riconosciuto come “sano” e tutti sono stati dimessi con una diagnosi di “schizofrenia in remissione”. La loro presenza non era stata neanche lontanamente sospettata.

Tale risultato non può essere imputato né alla qualità dell’ospedale (alcuni erano delle eccellenze), né alla mancanza di tempo (il ricovero medio è stato di 19 giorni totali), ma solo alla mancanza di un’osservazione attenta. Osservazione che, curiosamente, è stata portata avanti dagli altri pazienti i quali spesso sospettavano che gli pseudo-pazienti fossero giornalisti o professori, considerato il loro continuo prendere appunti.

La spiegazione di Rosenhan in merito ai risultati ottenuti è stata quella di applicazione dell’errore di tipo 2, ovvero che i medici siano più propensi a riconoscere un soggetto come “malato” (anche per evitare noie legali) piuttosto che sano. Ma, nonostante questa visione sia “positiva” per la medicina generale, garantendo un controllo più accurato dei pazienti, questo non vale in ambito psichiatrico, che ha un impatto sociale molto più forte. Infatti, un arto rotto o un raffreddore possono guarire, ma nell’immaginario collettivo se qualcuno è pazzo lo rimarrà per sempre.

Successivamente, è stato portato avanti anche un contro-esperimento, informando il personale di diversi ospedali che nei mesi successivi sarebbero arrivati altri pseudo-pazienti. Ma, nonostante gli ospedali ne avessero individuato un numero considerevole, la notizia era falsa. In questo caso, dopo aver capovolto il rischio, l’errore di tipo 1 (quando il medico è più propenso a riconosce un soggetto come “sano”) si è presentato molto più elevato dell’errore di tipo 2. I problemi, perciò, risiedono nel sistema stesso.

Problemi chiaramente identificabili in una forte etichettatura del paziente come “malato mentale”, che rende agli occhi di tutti il soggetto incapace di una qualsiasi azione logica, slegata da una possibile influenza da parte della malattia. Etichettatura che veniva alimentata sia dal luogo stesso, sia dal processo di spersonalizzazione operato soprattutto dallo staff medico. Quest’ultimo, in particolar modo, si è dimostrato particolarmente incapace nel trattare i pazienti come effettivi essere umani, non concedendo loro dei rapporti “normali”, preferendo ricorrere sempre più frequentemente a trattamenti farmacologici (dimostrando, però, anche in questo caso uno scarso impegno, vista la facilità con cui gli pseudo-pazienti riuscivano a non ingerire le proprie medicine).

L’esperimento proposto da David Rosenhan ha chiaramente dimostrato la nostra impossibilità nel distinguere, o meglio, nel riconoscere la sanità mentale e la pazzia. Probabilmente, tale impossibilità deriva da un’idea erronea secondo cui esista una linea di demarcazione effettiva. Infatti, non è possibile individuare un essere umano completamente sano, così come non sarebbe possibile il contrario, bensì tutti viaggiano, in maniera maggiore o minore, in una situazione di bilico.

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