Novembre 16, 2024

L’importanza morale delle storie

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Le storie sono un anello di congiunzione tra gli esseri umani di ogni tempo e spazio. Uniti nell'ardente desiderio di raccontarsi, sognare e costruire un futuro migliore

Credo che ci siano storie delle quali non si può fare a meno.

Storie struggenti, emozionanti, viscerali, veicoli di messaggi profondi e costruttivi, soprattutto se ascoltati in un’età in cui si conserva ancora la capacità di meravigliarsi e commuoversi, di farsi guidare da un sogno e ardere di passione. I greci e gli orientali, depositari di una fortunata tradizione orale, lo sapevano bene. Così sono giunte a noi le gesta di Gilgamesh, il re di Uruk protagonista dell’omonima Epopea, l’Iliade e l’Odissea, la diligenza di Socrate, che preferì la morte piuttosto che trasgredire le leggi della città e che sfidava il suo “avversario” fino a illuminarlo sulla pochezza e il pressappochismo delle proprie ragioni. Storie che hanno forgiato il nostro pensiero, la nostra cultura, la nostra civiltà.

Oggi le regole del mondo sono ben diverse ed è sempre più impegnativo avere il coraggio per lasciarsi ispirare dai propri ideali, perché imperversa una crisi nichilista che sta smorzando l’entusiasmo di una popolazione. Il futuro diventa una minaccia, un incubo che non si sa come affrontare perché mancano le energie per farlo, manca la forza di ribellarsi al pericolo di un ignoto sempre più funesto. Arrivati a questo punto il mondo si affronta con l’aggressività o con l’escapismo. Scappare ci fa sentire inadeguati, ma il cervello processa le informazioni in senso trasversale e crea un ponte verso prospettive idilliache e visionarie nelle quali si riesce a trovare la serenità. E’ il mondo redivivo dei nostri sogni, contornato da fantasie che hanno sempre un fondo di verità, perché vi è depositata la nostra essenza più vera. Nella fuga vi è la volontà di riscatto.

A volte si scappa per ritrovare la propria strada. A volte si ritorna più forti di prima. A volte è proprio nelle stelle della nostra anima che riusciamo a trovare la risposta. E’ il caso dell’opera disneyana “Il re leone”, in cui la morte di Mufasa rappresenta per Simba la perdita del punto di riferimento con la realtà. Il giovane protagonista avverte su di sé il peso oppressivo e angoscioso di un tradimento che non ha mai compiuto ed è spinto dalle parole di Scar ad andare via, ad intraprendere un viaggio che lo porterà a conoscere i suoi fidati compagni di avventura per poi tornare a prendere il suo posto nel cerchio della vita. Se Mufasa non fosse mai morto la storia avrebbe seguito un binario piuttosto banale, ma il rigetto sociale che Simba percepisce è l’occasione per mettersi in gioco e scoprire il proprio valore.

Costantemente tormentato dalle catene che lo legano a un passato dal quale cerca di prendere le distanze il più possibile, alla fine l’incontro con la sua amica d’infanzia Nala risveglia quella fiamma sopita, il richiamo irresistibile e selvaggio dell’origine che lo porta a compiere ciò per cui è nato. E’ un concetto caro ai greci quello di conoscere se stessi, di scoprirsi e riscoprirsi. Questo momento prima o poi nella vita arriva, e se non arriva si vive e si cerca di costruirlo, anche a costo di sopravvivere a trascorsi particolarmente lunghi e tortuosi. Hegel diceva che lo Spirito ritrova se stesso solo nell’assoluta devastazione. De Andrè ci ricorda che i fiori nascono dal letame e non dai diamanti. Una storia che segue un paradigma simile è quella di Edmond Dantes, un marinaio nel fior fiore degli anni e in procinto di realizzarsi sotto ogni punto di vista, che da un giorno all’altro viene tradito da coloro che riteneva essere i suoi migliori amici e si trova ingiustamente rinchiuso in un carcere francese, il Castello d’If, nel quale passerà ben 14 anni della sua vita, prima di uscire completamente trasformato e armato di una cultura sconfinata e di ricchezze materiali pressoché infinite. A quel punto imparerà dai maestri d’Oriente l’arte della vendetta e tornerà per realizzare i suoi propositi a sangue freddo. Il conte di Montecristo è un libro straordinario e intriso fino al midollo di storie nelle storie e momenti emozionanti nei quali è impossibile non rispecchiarsi.

Leggere non basta. Bisogna inebriarsi di certi racconti. Tutte le tribù primitive raccontavano miti e storie per insegnare cosa è puro e cosa è impuro, cosa è giusto e cosa è ingiusto, cosa è santo e cosa è empio e via discorrendo. Raccontavano storie con cui si imparava il sentimento. I greci con l’Olimpo avevano costruito una segnaletica dei sentimenti eccezionale. Noi ne siamo gli eredi culturali e l’eroismo è sempre in grado di toccare le nostre corde più intime con profonda eloquenza. La commozione è almeno in parte frutto della catarsi, vediamo ciò che vorremmo vedere, i desideri che contorcono il nostro stomaco riescono a trasumanare e si involano verso un libro o uno schermo. E in quel momento proviamo qualcosa di indescrivibile. E’ come se stare al mondo acquistasse un senso profondo e avvolgente.

Quella sete di storie è ancora viva in noi; fin dalla prima notte in cui, sotto le stelle, un mucchio di individui più o meno evoluti ha iniziato a far uso della parola per creare un ponte comunicativo, si è creata una catena umana che ha attraversato l’intera storia dell’umanità, fra i suoi decorsi drammatici e straordinari, ed è giunta fino a noi che, ancora una volta, come Simba ci testimonia, guardiamo quel cielo alla ricerca di risposte. È la magia dell’infanzia e non dobbiamo lasciare che si spenga del tutto, altrimenti l’avremmo vissuta per niente.

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