Dicembre 17, 2024

L’uomo che mise la testa dentro un acceleratore di particelle

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Cosa si prova a vedere un fascio di particelle alla velocità della luce venirci incontro in un acceleratore? Ci siamo chiesti pure questo.

Per fare bene il proprio lavoro bisogna usare la testa e il fisico russo Anatoli Bugorski, che lavorava per il laboratorio di ricerca con il più grande acceleratore di particelle dell’Unione Sovietica, il sincrotrone U-70, prese il suggerimento alla lettera.

Lo scopo del sincrotrone e, in generale, degli acceleratori – macchine estremamente complesse – è di accelerare fasci di particelle a velocità elevatissime, e guidarli e concentrarli lungo il loro percorso per mezzo di potenti campi magnetici. I tubi metallici all’interno dei quali viaggiano le particelle creano una condizione di vuoto quasi perfetto, privo di aria o di polvere, e i fasci possono essere diretti a colpire un altro fascio oppure un bersaglio prestabilito come un foglio di metallo.

Il 13 luglio 1978 Bugorski stava verificando un guasto all’interno dell’acceleratore quando, a causa di un malfunzionamento dei sistemi di sicurezza, ebbe un incidente senza precedenti noti nella storia. Mentre cercava di riparare il guasto, incrociò con la testa il percorso del fascio di protoni sparato a 76 GeV (gigaelettronvolt, l’unità di misura dell’energia acquistata da un elettrone quando si sposta tra due punti nel vuoto con differenza di potenziale di un miliardo di volt). Non avvertì dolore, ma come addetto ai lavori fu consapevole della gravità della situazione: con ogni probabilità, nessun essere umano era mai stato colpito da un fascio di radiazioni protoniche concentrato a un’energia così elevata. Terminato il lavoro all’interno della camera, uscì senza riferire dell’accaduto e poi tornò a casa.

Il fascio di protoni che entrò nel cranio di Bugorski, dalla parte posteriore sinistra, provocò un assorbimento stimato di circa 200 mila rad in pochi secondi (il rad, sostituito dal gray nel Sistema Internazionale, è un’unità di dose di radiazioni che considera la quantità di energia assorbita e trattenuta dalla materia irradiata, inclusi i tessuti del corpo umano). Una dose superiore ai 600 rad è ritenuta sufficiente a uccidere una persona.

Il giorno dopo l’incidente, Bugorski cominciò a mostrare sintomi preoccupanti e fu trasportato in ospedale a Mosca per un ricovero urgente. La parte sinistra del volto era gonfia e irriconoscibile. Nella parte della testa colpita dal fascio, i capelli erano caduti. Una volta chiarita ai colleghi e ai medici la dinamica dell’incidente, tutti si aspettavano che Bugorski sarebbe morto in poco tempo, non più di tre settimane. Il fascio di particelle che aveva colpito Bugorski sarebbe stato sufficiente a produrre in pochi giorni uno stravolgimento dei legami chimici nel DNA delle cellule colpite.

La differenza tra il caso di Bugorski e, per esempio, quello di molte persone interessate dall’esposizione diffusa determinata dal disastro di Chernobyl, che sarebbe avvenuto otto anni più tardi, è che nel caso di Bugorski le radiazioni erano concentrate in uno stretto fascio che aveva attraversato la sua testa. Pur subendo alcune conseguenze irreversibili, Bugorski sopravvisse, contro qualsiasi aspettativa delle persone a conoscenza dell’incidente (per oltre dieci anni rimasto segreto, a causa delle politiche di riservatezza dell’Unione Sovietica in materia di energia nucleare).

Le capacità e funzioni cognitive di Bugorski, che completò poi il suo dottorato in fisica delle particelle e oggi ha 78 anni, non risultarono condizionate in modo evidente né significativo, sebbene gli altri problemi di salute causati dall’incidente abbiano inevitabilmente aumentato la fatica del lavoro mentale. Dopo il dottorato, continuò a lavorare nel laboratorio di Protvino, si sposò ed ebbe un figlio.

L’aspetto più interessante della vicenda riguarda ovviamente la sua inaspettata sopravvivenza. L’ipotesi più condivisa riguardo alla spiegazione dell’incredibile storia di Bugorski, pur in mancanza di molte informazioni essenziali e di dati ricavabili da incidenti simili,  è che il fascio di protoni abbia casualmente mancato qualsiasi parte vitale del cervello. Se per esempio avesse colpito la corteccia motoria, il lobo frontale o l’ippocampo, ritengono gli esperti, la storia sarebbe forse finita in modo diverso. Inoltre è nota e studiata la straordinaria capacità del cervello di ripristinare connessioni e funzionamenti in caso di danni limitati e circoscritti.

Altre ipotesi chiamano in causa il concetto di picco di Bragg, mostrato in figura, che mostra la perdita di energia delle radiazioni ionizzanti – come quelle che colpirono Bugorski – durante il percorso attraverso la materia. 

Perdita di energia (asse y) in funzione della distanza (asse x) per una particella alfa.

Secondo questa curva, il percorso di un fascio di protoni culmina nel punto in cui il protone deposita la maggior parte della sua energia, che in genere accade subito prima che il percorso giunga al termine. È possibile dunque che il fascio non abbia raggiunto il picco nella testa e, fortunatamente, non abbia depositato la maggior parte dell’energia nel cranio. La dose di radiazioni ricevuta, in questo senso, sarebbe stata molto più elevata se la testa avesse avuto un potere di arresto sufficiente a creare un picco di Bragg.

Mi piace pensare che l’incidente avvenuto abbia in qualche modo destato l’attenzione sull’effetto di particelle accelerate sull’uomo.

 La perdita di energia di un protone accelerato è un fenomeno attentamente studiato e considerato nella adroterapia, un trattamento che utilizza un fascio di protoni per curare alcune tipologie di tumori, per minimizzare gli effetti sui tessuti non malati. In Italia, per esempio, presso gli ospedali di Catania e Pavia, è possibile curare tumori esponendo l’organo malato ad un fascio di protoni opportunamente tarato.  Come avviene nella scienza dunque, si può affermare che dagli errori si impara sempre.

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