Nella trappola della rete
15 min readLe prede e i predatori del Web
Ricordo che quando il World Wide Web cominciò a muovere i primi passi in maniera diffusa nelle nostre vite, l’immagine che spesso si associava alla parola Web era quella di una ragnatela. Una grande ragnatela. Per di più, il nome che venne dato a quegli algoritmi che metodicamente esplorano la rete in cerca di contenuti da indicizzare (e propinarci) è spider (o web crawler). La metafora è completa o almeno sembrerebbe, visto che, a pensarci bene, la ragnatela è lo strumento che il ragno usa per catturare le sue prede.
In effetti, a distanza di qualche decennio, la rete si è realmente rivelata uno strumento estremamente sofisticato per catturare delle prede, ossia, potenzialmente, ognuno di noi.
Dopo i primi anni di navigazione tranquilla fatta di siti di informazione, vetrine commerciali e poco più, sono comparsi i primi social, un nuovo modo di abitare lo spazio virtuale. All’inizio la curiosità è stata grande; una conquista senza precedenti per l’umanità che adesso aveva la possibilità di allargare in maniera indefinita la propria comunità di amici, conoscenti e affini. Una comunità con cui rimanere in contatto senza limiti di tempo né spazio. Bello vero? Sì, ma come il disegno di una ragnatela.
Il fenomeno è stato analizzato in profondità e i risultati ormai sono noti da tempo. Il più interessante è che la maggior parte delle persone non usa i social come mezzo per socializzare, ma semplicemente come strumento per consumare informazioni. Qual è, dunque, il risultato di questa bulimia da informazioni? Secondo i ricercatori, si va da un profondo senso di vuoto e di insoddisfazione che le persone che vi partecipano provano, fino a risvolti ben più gravi come la depressione, l’ansia o danni all’autostima. Lo spiega la dottoressa Anna Lembke, psichiatra, docente alla Stanford University School of Medicine ed esperta nel campo delle dipendenze. Perché tirare in ballo proprio la questione dipendenza? La questione è semplice. In un’intervista di un paio di anni fa ad una testata nazionale, la ricercatrice diceva:
“Sin dal 1997, da quando cioè è stato coniato il termine social media, sono stati pubblicati degli studi sull’impatto di questi ultimi sul comportamento umano. Studi di imaging del cervello umano mostrano che i percorsi di compensazione nel cervello sono attivati dal contatto sociale e dall’approvazione: quando qualcuno ti capisce, è d’accordo con te, provi piacere.”
E, il nostro cervello ma provare piacere, anzi ne è proprio dipendente. Infatti, la Lembke continua:
“I social media possano creare dipendenza è qualcosa che è venuto alla luce solo negli ultimi 10-15 anni, con resoconti aneddotici e clinici di persone impegnate in un uso eccessivo, compulsivo dei social media, con conseguenti danni a se stessi e/o agli altri. […] Studi scientifici hanno dimostrato che le persone che trascorrono molte ore al giorno sui social media hanno maggiori probabilità di avere a che fare con depressione, ansia, panico, pensieri suicidi, ecc...”
Ormai, a un certo livello, siamo diventati tutti dipendenti: cerchiamo continuamente attenzione, distrazione o l’appagamento tramite un Like.
Per comprendere ancora meglio la questione occorre fare un salto nel mondo delle dipendenze, in particolare occorre fare la conoscenza di una molecola specifica: la dopamina. La dopamina è un neurotrasmettitore, spesso chiamato informalmente l’ormone del piacere, coinvolto in moltissime funzioni. La dopamina viene rilasciata dal cervello quando si ha l’aspettativa di sperimentare una sensazione piacevole (ovviamente perché in passato abbiamo già sperimentato tale sensazione e l’abbiamo valutata tale). Va da sé che la dopamina ci motiva a fare cose che ci procurano piacere, innescando così il ciclo di motivazione, ricompensa, rinforzo. Quest’ultimo è il meccanismo che, se non controllato, instaura la dipendenza. I ricercatori infatti per quantificare il potenziale di dipendenza di una determinata esperienza verificano sperimentalmente la quantità di dopamina rilasciata da soggetti esposti a quella specifica circostanza: più è alta ovviamente più l’esperienza può creare dipendenza. In fondo, come abbiamo già detto, la ricerca del piacere è cablata nel nostro cervello.
Di tutto ciò però se ne sono resi conto anche i signori del web e non solo. Le piattaforme social si sono evolute integrando e affinando sempre di più algoritmi capaci di generare dipendenza. C’è chi a questo punto parlerebbe di complottismo, ma ciò Direi di no, visto che l’allarme è stato lanciato già da qualche anno da esperti “pentiti” del settore. Uno fra tutti è Jaron Lanier: eclettico pioniere dell’informatica, nonché colui che per primo ha usato il termine “realtà virtuale”.
Lanier è categorico:
“le Social Media companies hanno un unico obiettivo: cambiare il nostro comportamento”
“Siamo costantemente monitorati e misurati e riceviamo continuamente feedback ingegnerizzati. Veniamo ipnotizzati a poco a poco da tecnici che non possiamo vedere, per scopi che non conosciamo. Siamo tutti animali da laboratorio“
La base teorica sottostante è quella del comportamentismo e in particolare di quello di Skinner.
Il comportamentismo, noto anche come psicologia comportamentale, è una teoria psicologica nata negli Stati Uniti all’inizio del XX secolo, basata sull’idea che tutti i comportamenti vengono acquisiti attraverso il condizionamento; condizionamento che normalmente avviene attraverso l’interazione dell’individuo con l’ambiente. Per i comportamentisti le nostre azioni sono modellate da stimoli ambientali.
Tra gli esponenti più influenti del movimento si annovera Burrhus Frederic Skinner. Il contributo di Skinner è quello di aver interpretato il comportamentismo in maniera radicale. L’interesse di Skinner era capire come attraverso l’interazione con l’ambiente (sotto forma di ricompense e punizioni) si potesse giungere alla modifica di determinati comportamenti. Dal punto di vista del comportamentismo radicale infatti l’idea di libero arbitrio non ha senso di per sé in quanto ogni comportamento è rigidamente determinato da fattori situazionali.
E’ questo l’assunto da cui i guru delle piattaforme digitali sono partiti per tessere le loro reti. Dietro la facciata dello strumento che ci permette di connetterci con sempre più persone si nasconde la trappola: l’obiettivo è la nostra attenzione.
Mentre utilizziamo la rete, gli algoritmi adattivi osservano cosa ci coinvolge di più, proponendoci determinati contenuti e registrando come ci comportiamo di conseguenza. Dall’altra parte, il nostro cervello adatta il proprio comportamento nel tentativo di dare un significato agli stimoli che riceve. Ovviamente l’algoritmo non capisce effettivamente quello che stiamo facendo e gli stimoli che ci invia sono casuali (almeno all’inizio). Ma raccogliendo un numero elevato di dati da un altrettanto numero elevato di soggetti e correlando tutti questi input se ne può trarre delle tendenze. In fondo, come dice Lainer, i segnali principali che colgono gli algoritmi sono legati alle emozioni fondamentali dell’essere umano, soprattutto quelle negative:
“Gli algoritmi reagiscono quando le persone si arrabbiano, sono aggressive, irritabili”.
La strategia è semplice. La sollecitazione di emozioni intense è un metodo efficace per attivare una risposta del nostro cervello. Quando le persone sono arrabbiate, reagiscono. Quando provano insicurezza, cercano informazioni o prodotti che possano compensare le emozioni negative. Rabbia, conflitto e ansia sono le vie più veloci per cogliere l’attenzione del cervello. E gli algoritmi servono a questo, soprattutto perché lo fanno solamente per te. Le piattaforme che utilizzano gli algoritmi più efficaci, infatti, non ti mostrano il mondo per quello che è, ma una sua versione adattata. Una versione del mondo adattata all’esperienza del singolo utente in base ai suoi interessi, al suo comportamento, o meglio al modo in cui gli algoritmi pensano che il cervello dell’utente voglia vederlo.
Tutto ciò che vediamo sui social è determinato dalla nostra attività online. Insomma, siamo noi stessi che ci facciamo prigionieri della rete. Un po’ come nella metafora del ragno e della ragnatela: è la preda che caduta nella ragnatela, dimenandosi, ne rimane sempre più intrappolata.
Se il danno che questo sistema producesse fosse solamente quello di divorare il nostro tempo, spingendoci in maniera compulsiva a consumare informazioni, forse non ci sarebbe troppo da preoccuparsi.
Ma i pericoli sono altri e ben più grandi. Le avvisaglie le abbiamo avute e portano il nome di Cambridge Analytica. Di cosa si tratta? Cambridge Analytica è stata una società britannica, fondata nel 2013 e chiusa nel 2018, specializzata nel raccogliere dai social network dati sui loro utenti. I dati in questione sono quelli essenziali alla ricostruzione di ogni singolo profilo utente con un approccio psicometrico: si registrano i Like, quanti e dove vengono lasciati, i commenti, le condivisioni. Secondo quanto sostenuto dallo sviluppatore dell’algoritmo in questione era sufficiente analizzare 70 Like per sapere più cose sulla personalità di un soggetto rispetto ai suoi amici, 150 per saperne di più dei suoi genitori e 300 per saperne più del suo partner. Oltre questa soglia si poteva arrivare a conoscere la personalità di un individuo meglio di quanto si conoscesse lui stesso!
Come forse qualcuno si ricorderà, la società è diventata tristemente famosa per lo scandalo in cui ha trascinato la più nota delle piattaforme social: una condivisione di dati non proprio lecita che ha portato nelle mani della Cambridge Analytica informazioni su un totale di 87 milioni di profili. E la società come ha utilizzato questi dati? Li ha venduti a terzi, in particolare a chi se ne è avvantaggiato per mettere in atto un’intensa attività di propaganda finalizzata a influenzare le loro opinioni e quindi le loro scelte su questioni cruciali: in primis Brexit ed elezioni presidenziali americane.
La Rete, quindi, nel tempo, si è trasformata da trappola per perditempo a luogo dove si mettono in atto subdole campagne di propaganda tailor made. A questo punto credo sia d’obbligo ricordare le parole profetiche di Aldous Huxley, che nella prefazione a “A Brave New World” ammoniva:
” Per quanto riguarda la propaganda, i primi sostenitori dell’alfabetizzazione universale e di una stampa libera prevedevano solo due possibilità: la propaganda potrebbe essere vera, o la propaganda potrebbe essere falsa. Non hanno previsto ciò che di fatto è accaduto, soprattutto nelle nostre democrazie capitaliste occidentali: lo sviluppo di una vasta industria delle comunicazioni di massa, interessata principalmente né al vero né al falso, ma all’irreale, più o meno totalmente irrilevante. In una parola, non hanno tenuto conto dell’appetito quasi infinito dell’uomo per le distrazioni.”
L’impulso bulimico all’informazione ci rende vulnerabili anche da questo punto di vista.
Nel 2013, un articolo apparso sul Russian Military-Industrial Courier, a firma del generale russo Valery Gerasimov, descrive come, grazie all’avvento del digitale, l’uso misto di propaganda e sovversione sia diventato lo strumento bellico per eccellenza. Gerasimov scrive:
“Nel ventunesimo secolo abbiamo visto una tendenza verso la sfocatura dei confini tra gli stati di guerra e pace. Le guerre non sono più dichiarate e, una volta iniziate, procedono secondo modelli che sono ancora sconosciuti. L’esperienza dei conflitti militari, compresi quelli legati alle cosiddette rivoluzioni colorate del Nord Africa e Medioriente, conferma che uno stato fiorente può, in mesi e persino giorni, trasformarsi in un’arena di conflitti armati feroci, diventare vittima di un intervento straniero, e affondare in una rete di caos, catastrofe umanitaria e guerra civile. Certo, sarebbe più facile per tutti dire che gli eventi delle Primavere arabe non sono la guerra, e che quindi non ci sono lezioni per noi militari da imparare. Ma forse è vero il contrario, ossia che proprio questi eventi sono tipici della guerra nel ventunesimo secolo. In termini di entità di vittime e distruzione, le catastrofiche conseguenze sociali, economiche e politiche, questi conflitti di nuovo tipo sono paragonabili alle conseguenze di una vera guerra. Le stesse regole di guerra sono cambiate. Il ruolo dei mezzi non militari per raggiungere obiettivi politici e strategici è aumentato e, in molti casi, ha superato la potenza delle armi nella loro efficacia. Il focus dei metodi applicati in un conflitto si è evoluto nella direzione di un ampio uso di strumenti politici, economici, informativi, umanitari e altre misure non militari, applicate in coordinamento con la protesta potenziale della popolazione”.
E’ la nascita della cosiddetta Grey Zone Warfare. Il grigio come colore introduce una sfumatura nell’usuale pensiero dicotomico (pace/guerra, civile/militare). Cosa si intende per grey zone war? Essenzialmente tutte quelle attività coercitive, principalmente non militari, per mezzo delle quali una nazione cerca di influenzare deliberatamente altri stati. Si tratta di azioni multiple, apparentemente non correlate, poco attribuibili, che però si supportano reciprocamente, che si focalizzano sulle debolezze degli avversari e permettono di raggiungere obiettivi strategici tangibili senza l’uso di strumenti militari tradizionali.
Uno scenario nuovo, reso possibile dal dilagare incontrastato delle tecnologie digitali. Come ha sottolineato bene uno studioso della materia, il vero problema nasce dal fatto che l’uomo moderno non pensa, ma semplicemente si informa. Questo ha reso le nostre società estremamente fragili e attaccabili. Già Machiavelli nel suo “Il principe” evidenziava:
“Gli uomini sono così semplici, e così pronti ad obbedire alle necessità presenti che chi inganni troverà sempre quelli che permettono a se stessi di essere ingannati’.
Con lo sviluppo della tecnologia e dei social network, una serie di narrazioni parziali, frammentate e persino effimere hanno iniziato a fiorire ovunque. E’ ciò che il teorico dei media del MIT Henry Jenkins ha definito “storytelling transmediale“. Di cosa si tratta? Secondo la definizione che ne da Jenkins è:
“Un processo nel quale gli elementi integrati di una narrazione vengono sistematicamente separati e diffusi tramite diversi canali di comunicazione, con lo scopo di creare un’esperienza di intrattenimento unificata e coordinata. Idealmente, ogni media dà un contributo unico allo sviluppo della storia.”
In sintesi, una tecnica che mira a diffondere una specifica narrazione utilizzando piattaforme multiple che raccontano la stessa storia, ma da diversi punti di vista. Ecco, quindi, che ogni media su cui appare la narrazione aggiunge tasselli differenti al quadro generale in modo, comunque, che il tutto risulti coerente, ma che allo stesso tempo offra all’utente esperienze diverse che nel complesso risultino più coinvolgenti. L’altra caratteristica distintiva dello story-telling transmediale è il ruolo attivo del fruitore nella diffusione dell’informazione. Un’informazione che viene ulteriormente arricchita (o distorta), a ogni passaggio, dalle interpretazioni che ne danno gli utenti stessi.
Tra il 2006 e il 2017 il Massachusetts Institute of Technology ha svolto una ricerca, pubblicata su Science dal titolo “The spread of true and false news online” (La diffusione online di notizie vere e false).
Prendendo come campione un gruppo di utenti di Twitter, si è scoperto che una notizia falsa si diffonde sei volte più velocemente di una vera. Questo soprattutto in un ambito particolare: le informazioni a carattere politico. La cosa interessante che emerge dallo studio è che, contrariamente a quanto si potrebbe credere, non è l’utilizzo di sistemi artificiali (Bot) il fattore determinante nella diversa velocità di diffusione di notizie vere o false; i robot diffondono indistintamente notizie sia vere che false alla stessa velocità. Quello che fa la differenza sembra siano le persone; infatti gli autori concludono che una bugia viene solitamente condivisa nei social network il 70% in più rispetto a un fatto reale. Qual’è la logica sottostante a questo comportamento? Quando le persone accedono al Web in cerca di risposte, ciò che catalizza maggiormente la loro attenzione è un’informazione semplice, comprensibile (l’uomo moderno non pensa si informa). Le persone si fidano di ciò che suona bene, come ebbe a dire Duke Ellington: “If it sounds good, its good!“. Ma questa scorciatoia cognitiva apre la strada alla manipolazione, a campagne mirate di disinformazione che in coerenza con le vulnerabilità identificate attraverso le tracce che lasciamo durante la nostra navigazione nel Web, permettono a chi ne vuole approfittare di creare destabilizzazione nelle società. Le società polarizzate in cui viviamo ultimamente sono frutto di questa continua, subdola guerra che ognuno di noi contribuisce ad alimentare continuamente.
Certo manipolare l’opinione pubblica a fini propagandistici (o commerciali) non è un’arte nuova. Nel classico del 1928 di Edward Bernays “Propaganda. L’arte di manipolare l’opinione pubblica“, l’autore afferma:
“La consapevole e intelligente manipolazione dei costumi e delle opinioni delle masse è un aspetto importante della società democratica. Coloro che manipolano questo meccanismo invisibile della società costituiscono un governo invisibile che è il vero potere dominante del nostro paese.“
“Siamo governati, le nostre menti sono modellate, i nostri gusti formati, le nostre idee suggerite, in gran parte da uomini di cui non abbiamo mai sentito parlare. Questo è un risultato logico del modo in cui è organizzata la nostra società democratica. Numerosi esseri umani devono cooperare in questo modo se vogliono vivere insieme come una società che funziona senza intoppi”.
Per Bernays questa manipolazione deve essere orchestrata dalle mani di “uomini intelligenti” come mezzo per “combattere per delle finalità produttive e contribuire a mettere ordine in mezzo al caos”.
Un’idea, quella di Bernays, nata in una società non globalizzata, direi quasi asettica, dove il livello di scolarizzazione era ancora molto basso, il senso di appartenenza ad una comunità alto e l’etica veniva ancora considerata un elemento essenziale nella regolazione dei rapporti tra individui. Nell’immaginario dell’autore, gli individui sono governati essenzialmente da forze irrazionali, “energie libidiche”, “l’energia psichica ed emotiva associata alle pulsioni biologiche istintuali”; pulsioni queste che vanno controllate al fine di contenere il disgregamento del tessuto sociale stesso. Bernays non avrebbe mai immaginato un futuro in cui tali pulsioni sarebbe state sdoganate, anzi fomentate ad arte, diventando il letame su cui sarebbe fiorito il mondo dei social. Forse, peccando di ingenuità, non ha pensato che in un futuro non molto lontano, “uomini intelligenti” avrebbero usato le sue idee non per “mettere ordine in mezzo al caos”, ma proprio per il fine opposto: provocare il caos.
Ci stiamo quindi avviando verso il disastro? I presupposti ci sono.
Lo scrittore e sceneggiatore americano John Michael Crichton (quello che ha scritto Jurassic Park) in un’intervista di qualche anno fa ha detto:
“Non è straordinario? Nella società dell’informazione nessuno pensa. Eravamo convinti che avremmo abolito la carta, invece abbiamo abolito il pensiero”. Sono parole che evidenziano lo stato dei fatti attuali, ma che allo stesso tempo ci danno un indizio su come uscire dalla trappola: ritornare a pensare.”
La maggior parte degli studiosi impegnati a trovare strumenti per contrastare il fenomeno concorda sul fatto che il mezzo più efficace per combattere l’industria del dubbio (come l’ha definita Garry Kasparov) è rafforzare l’educazione e il pensiero critico delle persone. Al giorno d’oggi, la riflessione è stata sostituita dalla dittatura dell’azione e l’ignoranza è il concime su cui prosperano i business e la politica.
Un esempio virtuoso in tal senso ci arriva da uno dei soliti paesi modello nordici. In un articolo apparso un paio di anni fa su The Guardian (“How Finland starts its fight against fake news in primary schools“) si racconta come la Finlandia, dopo essersi accorta delle ingerenze mediatiche destabilizzanti che le stavano arrivando da uno degli stati confinanti, (provate ad indovinare quale) senza indugi ha messo in atto delle azioni radicali di contrasto; quali?
Nel 2014 il governo finlandese, da il via ad una riforma sistematica di tutti i curricula scolastici, allo scopo di affrontare le sfide di un mondo mutevole e complesso. La spinta, come detto, nasce dall’esigenza di contrastare il fenomeno delle fake news. Qual’è quindi l’obiettivo che il governo si è posto? Allenare i propri cittadini, sin dalla prima infanzia al pensiero critico. Il pensiero critico diventa così materia di insegnamento trasversale a tutte le discipline. Così, per esempio, durante le lezioni di matematica si approfondisce il tema di come si possano manipolare i dati statis
tici; durante quelle di arte, come si possono elaborare le immagini; durante le lezioni di storia si analizzano temi e linguaggi delle più famose campagne di propaganda politica ed infine l’insegnante di lingua e grammatica finlandese guida gli alunni nel comprendere come le parole possono essere usate per confondere ed ingannare subdolamente.
I ragazzi apprezzano. Come afferma una studentessa di 16 anni di nome Priya; l’educazione è il modo migliore per combattere le trappole che il digitale tesse:
“Il problema è che chiunque può pubblicare qualsiasi cosa. Un governo non può fare granché quando si trova di fronte a multinazionali come Google o Facebook, e se si spinge troppo in là viene accusato di censura. Quindi sì, l’istruzione è lo strumento più efficace“.
E il nostro paese? A che punto è?
L’ultimo rapporto ISTAT sull’istruzione delinea un quadro desolante. Il rapporto recita:
“La quota di popolazione di età compresa tra i 25 e i 64 anni in possesso di almeno un titolo di studio secondario superiore è il principale indicatore del livello di istruzione di un Paese. […] In Italia, nel 2020, tale quota è pari a 62,9%, un valore decisamente inferiore a quello medio europeo (79,0% nell’Ue27) e a quello di alcuni tra i più grandi paesi dell’Unione. Anche la quota dei 25-64enni con un titolo di studio terziario in Italia è molto bassa, essendo pari al 20,1% contro il 32,8% nella media Ue27″.
“Programmi di studio obsoleti e troppo teorici, dotazioni tecnologiche inadeguate, scarsa motivazione dei docenti, edilizia scolastica e classi sovraffollate” sono le cinque falle del sistema scuola Italia secondo un altro rapporto dell’IPSOS.
Dunque concluderei con una citazione di Alexis de Tocqueville:
“In una rivoluzione, come in un racconto, la parte più difficile è quella di inventare un finale.”
Mi piace definirmi un ingegnere umanista. Ho una laurea in ingegneria meccanica ad indirizzo gestionale, ma la mia vera passione è l’essere umano, la mia filosofia di vita: “uomo conosci te stesso”. Osservo, studio, sperimento, condivido, perché come disse un tizio: “poter condividere è poesia nella prosa della vita” (S. Freud)