Riscrivere il Passato: Il Contributo dei Subaltern Studies alla Storia Globale
7 min read“La storia la scrivono i vincitori” questa frase fatta, non attribuita con cortezza a nessun personaggio storico, nasconde un’importante verità: per molti secoli le narrazioni storiche hanno oscurato le storie dei marginalizzati. Tuttavia agli inizi degli anni ’80, un periodo di intensi dibattiti e cambiamenti sociali globali, sono emersi nuovi movimenti accademici aventi lo scopo di rivelare le voci silenziate dalla storiografia. Durante quel periodo le dinamiche postcoloniali, ovvero le interazioni e le conseguenze dei processi coloniali, stavano emergendo, scuotendo le fondamenta delle tradizionali gerarchie di potere e aprendo nuovi orizzonti di riflessione sulla complessa eredità dei rapporti coloniali. È in questo contesto di sfida alla narrazione dominante che si pone in luce il movimento dei Subaltern Studies, un’audace iniziativa intellettuale volta a scavare nelle pieghe della storia, riportando alla luce le storie spesso ignorate e negate delle classi subalterne.
Il movimento, fondato nel 1982 con il lancio del giornale “Subaltern Studies“, ha rapidamente guadagnato risonanza accademica. Guidato dallo storico ed economista Ranajit Guha, il collettivo dei Subaltern Studies si è impegnato a ricostruire la storia del subcontinente indiano, ascoltando e dando voce ai subalterni, le cui storie erano state soffocate dalla storiografia dominante, sia di stampo eurocentrico dei colonizzatori britannici, sia di quella dell’élite nazionalista.
Guha e il collettivo originale, tra cui Partha Chatterjee, Gyanendra Pandey, Shahid Amin, David Arnold, David Hardiman e Dipesh Chakrabarty, hanno cercato di colmare le lacune nei resoconti storici indiani, sottolineando il ruolo cruciale svolto nella formazione della nazione dalle masse dei subalterni. Il saggio di Guha, “On Some Aspects of the Historiography of Colonial India,” del 1982, funge da manifesto programmatico e apre il primo volume della collana “Subaltern Studies. Writings on South Asian History and Society,” pubblicazione ufficiale dell’omonimo collettivo di Delhi, giunta oggi all’undicesimo volume.
L’adozione del termine “subalterno” da parte dei Subaltern Studies è un omaggio ad Antonio Gramsci e alle sue riflessioni sui contadini non integrati nel sistema capitalistico di Marx. A differenza della concezione britannica che associa il “subalterno” all’ufficiale militare subordinato, il filosofo marxista italiano con questo termine si riferiva ai gruppi socialmente subordinati al dominio delle classi egemoni, in particolare ai proletari. I Subaltern Studies adottano questo significato e lo reinterpretano nel contesto regionale sottolineando la complessità dell’intreccio di dominio e resistenza, violenza e insubordinazione, che emerge nella ricostruzione storica dell’indipendenza nazionale.
Questo approccio critico sfida le narrazioni limitate proposte sia dal neocolonialismo che dalla storiografia nazionalista, ponendo l’accento sul significato cruciale dei soggetti subalterni nella formazione della nazione postcoloniale. Infatti, i Subaltern Studies mirano a colmare il divario tra la storia ufficiale del potere coloniale britannico e la storia popolare, mettendo in evidenza le voci e le esperienze spesso trascurate nella narrativa storica dominante.
L’obiettivo primario dei Subaltern Studies è quindi quello di riportare alla luce le storie e le voci dimenticate nei meandri degli archivi coloniali e nazionalisti. Questo approccio critico cerca di mettere in risalto l’agenzia delle classi subalterne in contesti caratterizzati da capitalismo, colonialismo e nazionalismo. Si tratta di un invito a riconsiderare la storia attraverso una lente più inclusiva e a dare voce a coloro che sono stati a lungo messi in ombra.
Il movimento dei Subaltern Studies ha saggiamente adattato gli approcci metodologici della “storia dal basso,” una corrente intellettuale sviluppatasi negli anni ’60 grazie a pensatori come E. P. Thompson, Raymond Williams ed Eric Hobsbawm. Questi studiosi hanno rivolto la loro attenzione alle classi lavoratrici e alle comunità emarginate ispirando i Subaltern Studies nel fare emergere le esperienze e le voci trascurate nelle narrazioni storiche tradizionali.
Per raggiungere questo scopo, gli studiosi dei Subaltern, come quelli della “storia dal basso”, utilizzano un vasto panorama di fonti, superando i confini dei documenti ufficiali e delle narrazioni dominanti. Questa scelta metodologica è motivata dalla consapevolezza che le voci delle classi subalterne spesso non trovano adeguata rappresentazione nei documenti ufficiali e nelle cronache tradizionali. Perciò, attraverso l’utilizzo di fonti orali, opere letterarie e materiali di cultura popolare, i Subaltern Studies mirano a catturare sfumature più ricche e complesse nella storia delle classi subalterne.
Esplorare la storia delle classi subalterne attraverso questa metodologia presenta diverse sfide. Da un lato, si rende necessario individuare e reperire fonti spesso trascurate, come le storie tramandate oralmente, i ricordi della gente comune e documenti dimenticati negli archivi. Dall’altro lato, è essenziale sviluppare strumenti interpretativi che possano affrontare la complessità e la mancanza di una sequenza logica in queste fonti. Inoltre, risulta fondamentale riconsiderare il racconto storico predominante, guardando alle fonti ufficiali da una prospettiva che metta in luce il loro potenziale neocoloniale e nazionalista. Ciò implica esaminare queste fonti considerando che spesso sono state create da coloro che hanno contribuito a mantenere le classi subalterne ai margini della storia, riflettendo le influenze del periodo coloniale e nazionalista nella loro narrazione.
Per queste ragioni una delle questioni più dibattute tra gli studiosi e i detrattori dei Subaltern Studies è se una storia caratterizzata da difficoltà nel reperimento e nell’interpretazione delle fonti possa realmente costituire una registrazione autorevole del passato. Si pone, dunque, il fondamentale interrogativo se il subalterno possa effettivamente parlare, raccontare la propria storia e affermare la propria identità. Questo dilemma, illustrato anche nei titoli di saggi come “Can the Subaltern Speak?” (1988) di Spivak, continua a sollecitare riflessioni profonde.
La scelta dei Subaltern Studies di concentrarsi sull’Asia del Sud non deriva solo dalle particolari condizioni storiche della regione, ma è anche influenzata dalle radici culturali degli studiosi. Infatti i nomi più noti del movimento provengono dall’India o da altri paesi dell’Asia del Sud, ed hanno sperimentato in prima persona gli effetti del colonialismo e post-colonialismo, sviluppando una sensibilità unica verso le dinamiche sociali e storiche locali. Molte di queste personalità hanno anche avuto un coinvolgimento diretto nelle lotte sociali della regione, motivandoli a esaminare criticamente le voci delle persone storicamente emarginate. Queste connessioni personali e le esperienze condivise hanno plasmato la prospettiva degli studiosi dei Subaltern Studies e guidato il loro impegno nel ridefinire la narrazione storica dell’Asia del Sud.
Gli studi subalterni si pongono quindi l’obiettivo di produrre analisi storiche in cui i gruppi subalterni siano considerati soggetti attivi, non meri oggetti di studio. A tale scopo, respingono una comprensione teleologica del progresso. Questo elemento li distingue dagli storici europei del movimento “storia dal basso” i quali consideravano la coscienza contadina come “pre-politica” o “pre-moderna,” suggerendo una presunta progressione verso una coscienza politica. Al contrario, per studiosi come Ranajit Guha, la subalternità dei contadini durante il periodo coloniale in India non era una fase pre-politica, bensì un sistema di segni presente in ogni aspetto della vita quotidiana.
La ribellione a questo sistema non rappresentava solo una reazione alle difficili condizioni di vita, ma un atto politicamente consapevole, un’autentica liberazione dalla subalternità e una partecipazione significativa al discorso storico nazionale. Questa prospettiva contesta l’idea che la coscienza contadina dovesse evolversi verso una consapevolezza politica, sostenendo piuttosto che fosse contemporanea al colonialismo e attivamente coinvolta nella sfera politica.
Il movimento dei Subaltern Studies non si limita quindi a riprendere le concezioni e le metodologie della “storia dal basso”; ma le modifica e adatta in modo attento al contesto specifico del Sud asiatico postcoloniale, con lo scopo di renderle più rilevanti per la complessità delle dinamiche sociali e storiche della regione. In particolare, il gruppo critica l’idea della centralità delle classi lavoratrici, sostenendo che in contesti postcoloniali come il Sud asiatico, altre forme di subalternità, come caste, età e genere, svolgano un ruolo altrettanto significativo.
Gli studiosi del gruppo esplorano quindi criticamente l’approccio marxista, apportando delle modifiche per riflettere la complessità delle dinamiche sociali e storiche della regione. Questo impegno si traduce in una ricerca più fedele della realtà postcoloniale del Sud asiatico e delle diverse identità subalterne.
Il movimento accademico dei Subaltern Studies ha rappresentato una svolta significativa nella storiografia globale ed ha innescato numerosi riflessioni critiche. Studiosi come Vivek Chibber hanno infatti sollevato dubbi sulla sua capacità di fornire un quadro esplicativo adeguato per comprendere la natura della modernità nell’Est.
A tali critiche il movimento ha risposto cercando di allargare le rappresentazioni della nazione e abbracciando la “frammentazione”, sfidando in questo modo visioni troppo omogenee e semplificate della nazione stessa. Piuttosto che adottare una concezione unificata e monolitica della nazione, il movimento ha quindi cercato di considerare la diversità delle esperienze all’interno della nazione, dando voce a gruppi marginalizzati e enfatizzando la complessità delle dinamiche sociali e culturali.
Negli anni Novanta, il progetto della subalternità ha inoltre assunto dimensioni internazionali con la fondazione di un collettivo latino-americano di studi subalterni nel 1993 e il riconoscimento internazionale attraverso un numero monografico dedicato alla prestigiosa American History Review nel 1994. Il volume curato da Ranajit Guha nel 1997, “A Subaltern Studies Reader,” ha ulteriormente consolidato la posizione del movimento su scala mondiale.
Il dibattito sugli studi subalterni, attivo da oltre due decenni, ha suscitato discussioni vivaci sul linguaggio, l’impostazione teorica e le influenze occidentali dei suoi protagonisti. Questo dialogo critico ha coinvolto sia sostenitori che detrattori, ma ha contribuito a plasmare la prospettiva postcoloniale e a stimolare ricerche sulla storia dei subalterni in diverse parti del mondo.
L’eredità dei Subaltern Studies persiste nelle continue sfide alle narrazioni dominanti, nella costante ricerca di rendere visibili le voci spesso trascurate dalla storia ufficiale. In un mondo che cerca sempre una comprensione più inclusiva del passato, il movimento dei Subaltern Studies continua a svolgere un ruolo significativo nel promuovere una prospettiva storica più equa e completa.
Citazioni
Betik, B. (2020). Subaltern Studies. Retrieved from https://scholarblogs.emory.edu/postcolonialstudies/2020/02/17/subaltern-studies/#:~:text=Subaltern%20studies%20analyzes%20the%20%E2%80%9Cbinary,%2C%20spaces%2C%20and%20historical%20moments
Maio, A. D. (s.d.). Subaltern Studies. Tratto da http://www.studiculturali.it/dizionario/lemmi/subaltern_studies_b.html
Sono Lucilla, ho conseguito la laurea in Beni Culturali e successivamente mi sono specializzata in Global Cultures presso l’Università di Bologna. Il mio percorso di studi non ha solo aperto le porte alla conoscenza critica della storia e dell’arte, ma mi ha anche spronato ad utilizzare questa prospettiva per analizzare il mondo contemporaneo. Attraverso la condivisione delle mie ricerche e riflessioni su temi sociali e culturali spero di stimolare discussioni significative.