Vivere senza social media: la nuova moda degli adolescenti del luddite club a New York.
4 min readQuante volte prima di mangiare una pietanza in un certo ristorante, godere di quel momento, siamo soliti fotografare il piatto?
Cerchiamo la giusta luce ed un filtro che ne risalta i colori per poi condividerla sui nostri social media di riferimento …
Il messaggio è chiaro: “sono in una bella location, sto mangiando bene e sono felice”!
Nell’era dei social media sembrerebbe che tutti dicano : guarda sto vivendo, sono un tipo “giusto” e faccio un sacco di esperienze.
Da sempre ogni individuo si è affacciato alle vite degli altri con curiosità, cercando di saperne i dettagli, soprattutto nelle piccole comunità.
Nell’epoca odierna, dove tutto è alla portata di click, è più facile vivere momenti di frustrazione.
I social media rappresentano infatti il riflesso (seppur fittizio) della nostra personalità, della nostra popolarità, aspetti che vengono sfruttati dalla figura degli influencer.
La continua ricerca di contenuti, sopratutto nelle persone ansiose può determinare due forme di ansia sociale: “Fear of Missing Out” e “Fear of Better Option“.
Espressioni oggi alla ribalta sotto l’acronimo di FOMO e FOBO.
La prima è la paura di essere tagliati fuori, di non poter condividere certe esperienze divertenti o interessanti che gli altri stanno vivendo.
La seconda rappresenta la paura che ci sia sempre un’opzione migliore di quella che si ha davanti, scegliere dunque diventa una grande sfida.
Questi concetti sono stati argomentati per la prima volta nel 2004 da Patrick McGinnis, allora studente dell’Harvard Business School.
In un editoriale per la rivista studentesca Harbus, il famoso imprenditore aveva evidenziato queste tendenze tra i giovani rispetto al loro utilizzo dei social media.
Una delle ricerche più conosciute sulla FOMO è di Andrew Pzybylski del 2013, ricercatore dell’ Oxford Internet Institute.
I risultati hanno evidenziato che sebbene i social network permettono una connessione immediata con la propria rete di amici, allo stesso tempo possono creare insoddisfazione verso ciò che si ha o difficoltà a capire cosa si desidera davvero.
Gli individui più dipendenti sono i giovani, maschi e con relazioni sociali o di parentela meno intense.
I quali manifestano scarso senso d’autoefficacia percepita (sentirsi competenti) e di autonomia rispetto alle proprie scelte.
Dati confermati da uno studio più recente effettuato da Beyens nel 2016, su un campione di adolescenti.
Durante il periodo pandemico i social sono stati una panacea per la solitudine forzata, un modo per non percepire la noia e la solitudine. Ma allo stesso tempo il continuo scrolling di contenuti o di doomscrolling (ricerca di notizie negative), di fissazione rispetto ai like ed alle condivisioni dei contenuti, aumenta i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, con tutto ciò che ne consegue.
In netta controtendenza, durante il periodo del lockdown, è stato creato un movimento contro l’utilizzo compulsivo degli smartphone, dal nome Luddite club. L’ideatrice è Logan Lane, una studentessa del liceo di Brooklyn, a New York.
La ragazza dopo intere giornate a guardare video su Tik Tok, ad intrattenersi con videochiamate, a postare contenuti, ha iniziato a porsi delle domande e a sentirsi in balia di questa dipendenza.
La dipendenza dagli smartphone (nomofobia) che si manifesta con l’eccessiva paura di non essere reperibili, di non poter essere online, di non avere semplicemente il proprio smartphone a portata di mano.
Molti coetanei ed amici della studentessa, si sono sentiti di condividere questa visione e di andare oltre la dopamina da social, della ricompensa immediata.
Il nome del club è ispirato a Ned Ludd, un operaio inglese che nel XVIII secolo si ribellò all’industrializzazione e la meccanizzazione del lavoro.
Il punto d’incontro dei giovani è rappresentato dal Prospect Park. Lì oltre a chiacchierare ed osservare la natura si dedicano a diverse attività.
Ad esempio dipingono, intagliano il legno, cuciono abiti, scrivono racconti, suonano uno strumento, recitano poesie. Si dichiarano più soddisfatti e di godere di più dei momenti.
Per necessità utilizzano i vecchi cellulari a conchiglia, che non prevedano l’uso di internet.
Questo “spirito rivoluzionario” del Luddite club mi ha fatto pensare al concetto di “Thaumàzein”, la parola greca che indica quel senso di meraviglia nei confronti del mondo, quel turbamento che si prova a vedere qualcosa che ci affascina. Quello di cui parla la filosofia, Aristotele, Platone…
Essere sovraesposti ad immagini, suoni, informazioni dal mondo digitale può portare quel senso di attutimento, di apatia; alla mancanza di sensibilità verso la bellezza ed i dettagli.
Il sociologo Simmel, parla a tal proposito di “effetto blasè“, tutto è uguale, uniforme, niente ci colpisce davvero, niente è “visto” veramente.
Il mondo social ovviamente non è da demonizzare a priori, in quanto possiamo creare reti sociali, fare informazione, esprimerci e quindi anche riuscire a ricavarne il meglio.
Senza però abbassare mai lo sguardo verso il senso di meraviglia, di sentimento profondo verso il mondo.
Meraviglia nei confronti della bellezza ma anche della bruttezza che permette di coltivare lo sgomento e l’aberrazione di fronte all’ingiustizia.
Sono Roberta, sono una Psicologa del benessere e dello sport. Specializzata in trattamenti funzionali anti-stress, basati sulla psicologia funzionale di Luciano Rispoli. Possiedo inoltre una formazione nell’ambito delle risorse umane, della formazione e dell’educazione.
Amo i dettagli della vita e delle persone, amo il mare, lo sport, la poesia, la scrittura ed il teatro.
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